G. Biggio. L’empatia nelle professioni dell’aiuto. Una visione psicoanalitica

Relazione presentata
al Seminario Sipp
Mercoledì 18 giugno 2014

 

L’empatia nelle professioni dell’aiuto.
Una visione psicoanalitica

di Gianluca Biggio

 

 

In questo seminario vorrei illustrare come la psicoanalisi applicata, la psicoanalisi da alcuni definita “senza divano” (Racamier 1993, Lemma 2012), possa utilizzare il concetto di empatia nel supportare varie situazioni di aiuto relazionale. Il tema dell'empatia è già stato approfondito nei seminari precedenti. Il mio intento è di dimostrare la sua presenza già nelle radici della pratica psicoanalitica offrendo inoltre alcune testimonianze di esperienze cliniche svolte in questo ambito.
Il mio contributo si svolgerà seguendo questo percorso:
1. Collegamento con il concetto di empatia descritto nei precedenti seminari
2. Riferimenti freudiani al tema della assistenza e della psicoanalisi applicata
3. Cenni sui modelli della psicoanalisi applicata: il modello del Tavistock HR, i gruppi Balint, l'analisi istituzionale francese, la scuola argentina e italiana.
4. Esperienze con operatori dell'aiuto; comunità terapeutiche, lavoro con operatori della salute, scuola, educatori e personale penitenziario, assistenti per anziani.

1. Collegamento con il concetto di empatia
Il termine empatia come sappiamo è stato introdotto nel periodo romantico da Novalis, poeta, teologo, filosofo e scrittore tedesco. Egli utilizzò il termine Einfuhlung nel senso di “sentirsi dentro” per definire un rapporto con gli oggetti della natura e riconoscersi in loro. Lo psicologo strutturalista Edward Titchener tradurrà (1909) questo termine con empathy. Nel periodo romantico vi era una forte spinta ideale verso una empatia sociale. A proposito dei ruoli di aiuto – oggetto del nostro incontro- il medico romantico Justitnus Kerner (1786 – 1862) curava i malati ospitandoli nella propria famiglia a Stoccarda.
Dai seminari precedenti è emerso come l'empatia sia inserita nella psicoanalisi attraverso molti e importanti autori da Ferenczi (1909) a Khout (1959) e molti altri (da Winnicott (1965) a Gaddini (1989) a Matte Blanco (1995), Tagliacozzo (1989) etc); basti inoltre osservare la frequente presenza del termine empatia negli articoli della Annata Psicoanalitica Internazionale o sulla Rivista di Psicoanalisi. Potremmo forse specificare che il termine empatia è stato usato anche da altri approcci come quello della psicologia umanistica rogersiana e che è un termine (non il solo) forse abusato in tanta pseudo psicologia. In psicoanalisi il concetto d'empatia, come altri (ad esempio l'insight), ha una valenza fenomenica ma non possiede uno statuto epistemico strutturale a sé stante anche se collegato chiaramente con i fondamentali concetti di reverie, contenimento e mirroring introdotti da Bion e Winnicott. Credo però che il lavoro di Bolognini (2002) abbia fornito un'idea molto limpida della specificità e della profondità clinica dell'empatia psicoanalitica focalizzandone il riconoscimento nel processo analitico. Una concezione di empatia che non può essere una intenzione né un apprendimento razionale ma è un inafferrabile saper essere che si colloca, come dice l'autore, “sulla battigia del conscio/preconscio con lieve prevalenza della seconda area”. In Psicologia delle masse e analisi dell’Io Freud (1921) asseriva che i membri di un gruppo si identificano l’uno con l’altro “mediante un processo che ci permette di intravvedere l’Io estraneo di altre persone”. Pigman (1995), fa notare che per Freud l’Io estraneo di un’altra persona non significava “Io estraneo a noi in quanto di altre persone”, bensì quella parte interna di altre persone che risulta straniera, estranea, ignota al loro stesso io. In questo senso l’empatia è un evento intra e interpersonale non programmabile. L'empatia è collegata nel campo psicoanalitico con una serie di funzioni intrapsichiche e interpersonali dell’apparato mentale, tra cui l’“essere all’unisono” (at-one-ment) di Bion (1967), la “sintonizzazione” (attunement) di Stern (1985), il “trascinamento” (tracking) di Holmes (1993), il “pensiero comune” (co-thinking) di Widolcher (2001).
Secondo Rosenfeld (1970) l’identificazione proiettiva introiettabile da parte dell’altro può comunicar “in uscita”, si possono cioè emettere elementi interni che potranno o meno essere recepiti dall’altro e fornirgli conoscenza di noi, previa elaborazione e integrazione rappresentazionale successiva. Ma è solo con un livello pur minimo di introiezione che noi possiamo conoscere l’altro: il che richiede la disponibilità di un qualche spazio interno “recipiente” e l’assenza di un flusso proiettivo troppo massiccio che ricopra di elementi interni, l’ambiente e gli oggetti (Fonda, 2000). Quest'ultimo autore collegandosi al concetto di object seeking di Fairbarn (1952), ipotizza la costituzione di “spazi mentali comuni”, limitate aree fusionali di libero transito dei contenuti mentali tra soggetto e oggetto; fenomeno presente nella preoccupazione materna primaria, nell’analisi, nelle pratiche sociali. La modalità empatica quindi sarebbe rappresentabile come un “bussare” ai confini dell’altro per suscitare la formazione di adeguate rappresentazioni simboliche. Il sottile equilibrio tra empatia, identificazione, introiezione e fusionalità determina la qualità realizzativa ed oggettuale della interazione individuale e di gruppo.

2. Riferimenti freudiani al tema della assistenza e della psicoanalisi applicata
Vari autori moderni mettono a confronto la psicoanalisi con il tema dell'assistenza nell'ambito delle istituzioni sociali. La psicoanalista francese Catherine Millot (1979) nel suo contributo “Processo educativo e processo psicoanalitico” evidenzia la presenza dell'interesse per la pedagogia in tutta l'opera freudiana. Ella fa notare come Freud, in Cinque conferenze sulla psicoanalisi, affermasse (1910): “Se volete, potete descrivere il trattamento psicoanalitico semplicemente come un’educazione permanente al superamento dei residui infantili” (pag. 166).
Riflettendo sulla funzione dell'assistere, Freud (1894) in A proposito di una critica delle 'nevrosi d'angoscia' conclude: “L'ultimo caso, ( di nevrosi) quello cioè della insorgenza della nevrosi d'angoscia in conseguenza a grave malattia, sovraffaticamento, estenuante assistenza prestata a infermi...” (pag.172). In Studi sull'isteria. Caso della Signorina (1892-95) sempre Freud afferma: “Così chi assiste un malato accumula una quantità di impressioni cariche di elementi affettivi che difficilmente sono percepiti con sufficiente chiarezza e che ad ogni modo non vengono alleggerite da abreazioni”. (p.314). Nel 1925 Freud redige un'introduzione al libro dello psicoanalista Aichhorn “Gioventù traviata”. Questo libro rese Aichhorn noto come studioso della psicoanalisi applicata ai temi dell'educazione. Nell'introduzione al testo Freud, afferma: “La possibilità di influenzamento psicoanalitico poggia su alcune premesse ben precise compendiabili nel termine 'situazione analitica'... Qualora queste premesse manchino come nel bambino, nel giovane traviato, e anche normalmente con l'individuo con impulsi criminali, quel che bisogna fare è qualcosa di diverso dalla analisi, (qualcosa) che risulta poi coincidente con essa in quanto a intenti. I capitoli teorici di questo libro consentiranno al lettore di orientarsi nella molteplicità e varietà delle soluzioni che spettano agli educatori”.
Il tema dell'incontro tra psicoanalisi, pedagogia ed educazione, sia in senso spiritualista che libertario si diffonde nelle prime decadi del Novecento tra i pionieri della psicoanalisi. Il pastore Oskar Pfister, con cui Freud intratterrà carteggio dal 1930 al 1939, scrive nel 1917 un'opera su Pedagogia e psicoanalisi, in cui sostiene il valore spirituale della psicoanalisi applicata alla pedagogia. Bernfeld (1925), membro dell'Istituto psicoanalitico di Berlino, nel 1915 pubblica scritti su antiautoritarismo e psicoanalisi fondando a Vienna l’Istituto Baumgarten, le cui linee pedagogiche di base erano l’eliminazione di ogni tipo di coercizione e di autoritarismo. Vi sono poi le esperienze di Susan Isaacs alla Malting House School di Cambridge e Anna Freud alla Hampstead Nursery di Londra e altre ancora. All’approfondimento del tema, si sono poi dedicati con passione tanti psicoanalisti e pedagogisti contemporanei e successivi a Freud. Ricordo qui, per citarne alcuni, gli scritti di Ferenczi (1908), Klein (1923), Bernfeld (1925), A. Freud (1930), M. Balint (1932), Hoffer (1945), Zulliger (1951; 1957), Cremerius et al. (1971), Hill (1971), Kaës et al. (1973), Mannoni et al. (1970).
Il tema della psicoanalisi applicata si estende dalla pedagogia ad altri campi. Nel 1951 Ernest Jones pubblica un libro titolato “Saggi di psicoanalisi applicata” una raccolta di scritti dal 1911 al 1949 nella quale si analizzano gli svariati campi di applicazione della psicoanalisi in accordo con il pensiero di Freud. Rudolf Ekstein psicoanalista viennese emigrato negli Stati Uniti, collaboratore di Aichorn e di Anna Freud, noto per il suo trattato su psicoanalisi e pedagogia (1975), in un articolo del 1964 apparso su Psychoanalytic Review sostiene che l'applicazione della psicoanalisi ad altri campi non solo è un processo di diffusione delle conoscenze da un livello "superiore" ad un livello "inferiore", ma un processo di comunicazione tra esperti formati in diverse competenze in cui avviene la fertilizzazione incrociata di approcci. Renata Gaddini nell'appendice al suo capitolo sulla psicoanalisi infantile nel Trattato di Psicoanalisi a cura di Semi (1989) sostiene fortemente il ruolo della psicoanalisi applicata non solo al trattamento dei disturbi ma anche alla modificazione degli apparati sociali deputati ad affrontare dei comportamenti antisociali.
In accordo con questi sviluppi la International Review of Psycho-Analysis, nel 1984 recensisce favorevolmente un libro sulle professioni di aiuto “ The Cry for Help and the Professional Response” (Kahn e Earle, 1982). Questo libro è scritto per professioni definite di aiuto: medici di base, psichiatri, assistenti sociali, ufficiali giudiziari, insegnanti, etc. Lo scopo dichiarato del libro è quello di cercare di aiutare queste professioni a trovare un nuovo quadro analitico di comprensione all'interno del quale l' aiuto può essere offerto. “Il grido di aiuto” è anche la richiesta inconsapevole degli operatori minacciati nel loro senso di identità professionale.
Recentemente l'International Journal of Applied Psychoanalysis (Gourguechon, 2013) parla di “Typology of Applied Psychoanalysis” tipologie di psicoanalisi applicata per utilizzare concetti psicoanalitici e gli interventi al di fuori del tradizionale sala di consultazione clinica. Una breve rassegna della storia della psicoanalisi applicata è seguita dalla definizione di categorie di attività: supporto sociale, organizzazione sociale, psicoanalisi nella comunità, psicoanalisi della comunità, cambiamento sociale.

3. Cenni sui modelli della psicoanalisi applicata
A partire dal dopoguerra con lo sviluppo del Welfare State le opportunità di applicazione della psicoanalisi in ambiti extra duali si sono decisamente sviluppate. Alcune di queste applicazioni riguardano un lavoro di sensibilizzazione di operatori sociali alla tematica psicoanalitica al fine di migliorare la loro capacità di comprendere il contesto in cui operano e il rapporto emotivo tra sé stessi, il ruolo professionale e l'ambiente. I contenitori teorici e applicativi di questi interventi sono molteplici e proverò a citarne alcuni: il modello del Tavistock HR, i gruppi Balint, l'analisi istituzionale di scuola francese, argentina e italiana. Gli utenti sono svariati: medici e infermieri, insegnanti, educatori di comunità, assistenti sociali, personale di custodia penitenziaria, assistenti agli anziani e altro ancora. In tutti questi casi credo che la sensibilizzazione alla consapevolezza della relazione empatica svolga un ruolo importante.
Lo psicoanalista inglese Hinshelwood (2005) nel suo libro “Osservare le organizzazioni. Ansia, difesa e cultura nei servizi sanitari” scrive: “Le persone che svolgono professioni di aiuto hanno spesso avuto il ruolo di 'curante' nella propria famiglia e questo ruolo è divenuto una parte indispensabile della loro identità...gli operatori sono spesso portati a proiettare i loro sentimenti di impotenza nei pazienti... interesse ed empatia per la sofferenza e il dolore psichico degli altri sono essenziali per lavorare in psichiatria... Essi possono tentare di farlo assumendo il ruolo degli infermieri o dei medici 'sani' nei confronti dei 'matti'. Ciò tuttavia rende gli operatori incapaci di aiutare i pazienti... perché non possono più mantenere l'empatia con gli stati mentali dei loro pazienti che sono diventati troppo pericolosi.

Il modello Tavistock Istitute
Il Tavistock Institute nasce in Inghilterra nel secondo dopoguerra come un centro di psicoanalisi applicata che si propone di studiare il funzionamento delle istituzioni umane, di elaborare strumenti per un aiuto consulenziale alle organizzazioni in difficoltà e di contribuire all' integrazione delle diverse scienze sociali.
Le sue matrici teoriche sono principalmente due:
1. la teoria psicoanalitica, nella sua applicazione specifica alle dinamiche dei gruppi e delle istituzioni (Bion 1961, Jaques 1955, Menzies 1960), tematica conosciuta anche come come “socio-analisi”,
2. la teoria dei sistemi aperti, i cui concetti sono stati applicati in diversi campi, dalla biologia alla modellizzazione delle organizzazioni sociali ed alla terapia familiare (von Bertalanffy 1968, Emery 1969).
Il modello si articola su tre assi o dimensioni che ne definiscono il valore euristico e gli sbocchi applicativi:
1. è un metodo di analisi che serve a scopi di ricerca. Vedi il concetto di osservazione istituzionale di Hinshelwood, 2005
2. è un metodo di formazione per le organizzazioni sia sociali che commerciali per le posizioni di leadership sia di collaboratori;
3. è uno strumento di diagnosi organizzativa e di consulenza alle organizzazioni
La ricerca infatti non è mai fine a sé stessa ma è fortemente direzionata a fornire aiuto a chi lavora nell'organizzazione (action research); d'altra parte anche la formazione non è finalizzata alla semplice acquisizione di abilità gestionali e strumentazioni operative, ma mira a sviluppare nelle persone "sensori", competenze emotive, attitudini ad osservare e a comprendere i processi psicodinamici e le reti relazionali operanti nei luoghi di lavoro (Obholzer e Roberts 1994)

I Gruppi Balint
Sulla scia di Sandor Ferenczi, che gli trasmise l’importanza della soggettività e della partecipazione affettiva del terapeuta nella relazione di cura, lo psicanalista Michael Balint (Budapest 1896 – Londra 1970) riprese il lavoro di formazione ai medici generici nel policlinico di Budapest negli anni trenta dello scorso secolo. Fu però vent’anni dopo, alla Tavistock Clinic di Londra, dove nel frattempo si era trasferito, che trovò le condizione adatte e lavorò alla costituzione dei gruppi Balint, divenendo conduttore dapprima di un gruppo di assistenti sociali e di psicologi (1951) e finalmente di gruppi di medici di famiglia (1961).
Egli scelse di lavorare proprio con questi ultimi in quanto ritenuti gli unici capaci di cogliere l’esperienza della malattia nell’ambiente socio culturale nel quale si genera. Nel gruppo, una decina di partecipanti si riunivano settimanalmente per un’ora e mezza, operando sul “controtransfert”, cioè sul modo in cui il medico utilizza la sua personalità, le sue convinzioni scientifiche, le sue reazioni automatiche (Balint 1961). Lo scopo era rendere consapevole il medico del suo essere “medicina” e di quanto la relazione con il malato influisse sul suo comportamento professionale, sulle decisioni diagnostico-terapeutiche e sulle risposte del paziente e del suo ambiente. Balint considerava imprescindibile garantire ai partecipanti la possibilità di esprimersi, con “il coraggio della propria stupidità”. Il concetto di empatia è parte strutturante di questo lavoro. Un articolo di Gabriele Vezzani su Psicoterapia e Scienze Umane del 2012 contiene un interessante bilancio dei gruppi Balint in Italia dal 1970 ad oggi. Vedi anche le esperienze istituzionali nel reparto di psicosomatica dell'ospedale San Giacomo di Roma descritte da Luigi Scoppola (2011).

L'analisi istituzionale
L’analisi istituzionale deriva dalla “Psicoterapia Istituzionale”, un movimento nato nel manicomio di Saint Albain durante la resistenza francese nella seconda guerra mondiale (Biggio, 2011). Questa esperienza verrà elaborata da Lapassade (1967), fondatore della “Analisi istituzionale”, e raccolta dalla scuola di psicosociologia francese (Enriquez) e da psicoanalisti interessati alla istituzione, vedi ad esempio Enriquez 1992, L’organization en analyse) oppure Kaes, Bleger, Enriquez, Fornari, Fustier, Roussillon, Vidal, (1988) L’istituzione e le istituzioni. Alla scuola di analisi istituzionale francese si rifanno anche autori di scuola argentina in un originale approccio istituzionale, gruppoanalitico e sistemico come si può osservare nel lavoro di Bleger “Psicoigiene e Psicologia istituzionale” che raccoglie contributi che partono dal 1966 e arrivano sino agli anni Ottanta. Esiste pure un interesse italiano per il tema delle istituzioni. Vi sono molti contributi che spaziano tra differenti approcci; ad esempio contributi di psicoanalisi e socioanalisi delle istituzioni (Fornari 1973, 1985), relativi alla fondazione dell'Istituto Minotauro di Milano e tra l'altro, alla pratica dei gruppi di codice diretti verso genitori e operatori. Contributi psicoanalitici e gruppoanalitici sulla istituzione (Correale, 1971) e contributi psicosociologici (Kaneklin e Manoukian, 1990). L'analisi istituzionale è spesso collegata con i gruppi esperienziali di operatori svolti all'interno delle istituzioni. A partire dagli anni Sessanta, in sinergia con le applicazioni tavistockiane, fra tutti questi autori si sviluppa un vivo interesse per le tematiche del gruppo di formazione. E' negli anni Ottanta che lo psicoanalista Speziale Bagliacca (1980) pubblica “Formazione e percezione psicoanalitica. Proposte per gli operatori sociali”, lavoro nel quale si sottolinea l'importanza di fornire quadri analitici di riferimento agli operatori istituzionali.
I gruppi degli operatori sono spesso rivolti alla sensibilizzazione verso il proprio lavoro. In questo senso l'analisi dell'identificazione proiettiva reciproca tra istituzioni e operatori – the mirroring image structure come affermano Stanton e Schwartz, (1954) - permette una più reale empatia tra operatori e utenti. Attraverso una analisi del controtransfert istituzionale nei gruppi di supervisione, gli operatori possono non tanto divenire degli “analisti” ma piuttosto avere una percezione più chiara del rapporto tra mondo esterno e mondo interno aspirando ad una relazione più empatica e meno proiettiva nella funzione di assistenza. La comprensione psicoanalitica del gruppo istituzionale ruota intorno alla capacità oggettuale (raggiungimento dei fini) che si determina in base agli esiti positivi o negativi delle combinazioni comunicative, derivante anche dai livelli di empatia tra gli operarori del gruppo e tra gli operatori e gli utenti (Biggio, 2014). A questo proposito sono molto interessanti le esperienze riportate da Ferruta, Foresti e Vigorelli (2012) nel libro “Comunità Terapeutiche”; in particolare il capitolo sulla supervisione e le modalità di formazione per operatori di comunità mette a fuoco l'importanza dell'ascolto empatico, della autoriflessività e della sensibilizzazione alla distinzione tra il “dentro e il fuori” nelle dinamiche emotive istituzionali (p.434-44).

4. Esperienze con operatori dell'aiuto
Nell'ambito delle esperienze che caratterizzano la psicoanalisi applicata possiamo dire che una parte di esse sia rivolta direttamente verso un paziente in ma bensì all'operatore che svolge una funzione sociale di aiuto. Abbiamo individuato alcune caratteristiche strutturali di questo intervento, pur nella diversità delle situazioni; ovvero favorire la riflessione sulla propria esperienza e la sensibilizzazione alla distinzione tra il “dentro e il fuori” nelle dinamiche emotive di gruppo e istituzionali. Lo scopo è di aiutare l'operatore a interiorizzare una modalità empatica del task di lavoro ed anche migliorare la gestione delle ansie lavorative riducendo pericoli di agiti, di stress o burn out sul lavoro. (Esiste in questo campo una ampia letteratura non solo psicologica ma anche psicoanalitica; vedi ad esempio Edelwich, Brodsky, Burn-out, Stage of Disillusionment in the Helping Professions,1980; Stress and burnout in the human service professions di Alan Farber, 1983). Alcuni altri riferimenti, tra i numerosissimi esistenti, potranno chiarire ancor più la tematica.
Henry-Polacco, ed altri collaboratori del Tavistock Institute (1970) pubblicarono un libro titolato: “L'esperienza emotiva nei processi di insegnamento e apprendimento”. I saggi che compongono questo volume facevano riferimento alla lunga esperienza maturata nell'ambito della Tavistock Clinic di Londra da parte di professionisti e docenti coinvolti in un lavoro di consulenza e ricerca con allievi e insegnanti. In questo libro si analizza, da un punto di vista psicoanalitico, la relazione fondata sull'insegnamento e l'apprendimento. L' apprendimento si svolge all'interno dei rapporti di dipendenza la cui qualità è di fondamentale importanza. Gli insegnanti, possono giovarsi in modo considerevole della consapevolezza dei fattori emotivi e relazionali connessi al processo di apprendimento. Esistono numerosi contributi sia internazionali che italiani che danno conto della attualità della psicoanalisi applicata agli operatori scolastici.
L’infermiere e il suo paziente: il contributo del modello psicanalitico alla comprensione della relazione d’aiuto, a cura di Cannella e altri (2001), descrive come nel training degli operatori delle professioni d’aiuto, oltre l'insegnamento delle necessarie abilità tecnico-procedurali, sia fondamentale la valorizzazione e la promozione delle qualità umane (autenticità, coerenza, disponibilità, empatia e creatività), qualità da stimolare attraverso il gruppo di formazione. Elena Riva (2009), psicoanalista Spi, nell'ambito dell'Istituto Minotauro di Milano, che svolge attività di ricerca-formazione e consultazione-psicoterapia, riprende le esperienze dei gruppi di codice fornariani. Questo gruppi sono promuovono la sensibilizzazione alla relazione analitica con genitori di adolescenti che si rivolgono al centro.
Adamo e Valerio (1996) pubblicano il resoconto di un seminario di studi tenutosi a Napoli titolato “Condividere e contenere: la funzione della supervisione nella pratica degli operatori impegnati nel lavoro con adolescenti” con contributi di Giuliana Milana e Stephen Stein. Quest'ultimo in particolare scrive sui “rischi psicologici degli operatori sanitari” e afferma: “In questo mio lavoro intendo affrontare quella serie di problemi che potremmo dire tipici del 'guaritore ferito'. Coloro che si prendono cura degli ammalati e dei sofferenti sono anch'essi a rischio ...coloro che si prendono cura degli ammalati e dei sofferenti sono anch'essi a rischio in termini di stress psicologico...”.
Nel 1997, la rivista Psychoanalytic Social Work pubblica una articolo titolato “L'operatore sociale sufficientemente buono; comprendere e applicare i concetti di Winnicott nella facilitazione delle relazioni”. In esso numerose vignette cliniche ci danno il senso della “ esperienza – da vicino” e della empatia necessaria per lavorare con persone in qualsiasi ambiente di aiuto.
Tra i tanti lavori segnalo “Gruppi di supporto per assistenti professionali. Un ruolo per la psicoanalisi contemporanea” pubblicato dal Journal of American Academy of Psychoanalysis nel 1997.
Nel 2009 sull' International Forum of Psychoanalysis, compare un lavoro innovativo sulla utilizzazione delle conoscenze psicoanalitiche durante l'implementazione delle misure penali. I concetti teorici e clinici della psicoanalisi sono applicati alla psicoterapia individuale, all' assistenza infermieristica specializzata, alla pratica di una comunità terapeutica penitenziaria.
Questo lavoro è in accordo con le tesi in precedenza riportate da Brunori e Raggi (2007) in “Comunità terapeutiche”. Gli autori descrivono esperienze definite come sensitivity group per il personale operante in un istituto di pena inglese, il “Grendon Underwood Prison”, dove si è svolto un esperimento di riabilitazione comunitaria attraverso gruppi esperienziali con orientamento analitico per operatori. I sensitivity groups, si dice nel testo, : “ sono finalizzati a tutti i membri dello staff e finalizzati a favorire la la metabolizzazione del vissuto emotivo dovuto al continuo e intenso contatto con i detenuti” (pag. 145).

TRE CASI CLINICI RELATIVI A SITUAZIONI DI LAVORO CON OPERATORI
1. Supervisione individuale di una psicologa impegnata con gruppo di formazione per infermieri

In una seduta la dottoressa A. fece riferimento a una situazione che le aveva creato un particolare imbarazzo e difficoltà. Era stata incaricata della formazione di un gruppo di lavoro per infermieri di un reparto per malati terminali presso un importante ospedale romano. A. racconta che dopo l'incarico, senza aspettare la presentazione di un progetto di lavoro dettagliato e senza preavvisarla di un inizio di attività, il primario del reparto l’aveva presentata agli infermieri chiedendole sul momento di avviare un primo incontro di gruppo. Il primario allontanandosi dalla sala saluto rapidamente tutti augurando buon lavoro. La scena si svolgeva nella stanza delle riunioni dove vi era un grande tavolo. Gli infermieri si alzano, il caposala si avvicina alla dottoressa A. per presentarsi dicendo che sono tutti molto contenti del suo arrivo. La dottoressa A. si siede per iniziare la riunione e prendere accordi con il gruppo, ma nota con sconcerto che una gran parte degli operatori rimane in piedi a chiacchierare in gruppetti, facendo finta di nulla. Viene presa da uno stato di ansia e rabbia, pensa di voler lasciare l’incarico e di fare osservazioni critiche al primario. A. rimane in silenzio e in qualche modo avvia la riunione. Emergono lamentose osservazioni verso l’organizzazione dell’ospedale, rivalità tra caposala e una infermiera.
Durante l’incontro di supervisione individuale si percepisce che il “campo istituzionale” rappresentato dal tavolo della sala è un campo frammentato e sovraccarico, gli operatori hanno difficoltà a “pre-siedere”, accomodarsi nella situazione. La dottoressa A. conviene sul fatto che dietro una facciata sorridente e indisponente tutti sembrano difendersi; si parla di tutto tranne che degli obiettivi del gruppo di lavoro e del ruolo dell’infermiere verso i malati. Le vengono in mente immagini di un pranzo di famiglia, di banchetti di prime comunioni, un'aria di passato e di provincia… emerge un episodio personale in cui in un festeggiamento per una comunione il tavolo non bastava per i convitati, si era creato un clima di affollamento e confusione che il cameriere non riusciva a gestire e si dovette chiamare il padrone del locale. A inizia a dire che lei si era sentita in effetti come la “cameriera” del primario e temeva di non riuscire a governare la situazione. Inoltre mi racconta che nella sua analisi personale si era molto confrontata con il padre, una figura autoritaria e inibente.
Il campo della supervisione (tavolo degli infermieri) sembrava sovrapporsi al tavolo della famiglia di A. mentre A. si identificava anche con la madre che non riusciva a opporsi al padre stesso.
Si percepisce finalmente che la scena del tavolo degli infermieri si era incagliata in una rappresentazione emotivamente dolorosa rendendo la dottoressa A. “impenetrabile” ad una empatia in grado di fornire agli operatori un contenitore-contenuto istituzionale.
La supervisione fornì ad A. delle emozioni nuove che le consentirono migliorare la propria capacità aprirsi a una risposta più sicura e contenitiva verso gli operatori e l’istituzione. Ciò si tradusse nel fatto che A. riuscì a presentare un programma di lavoro dettagliato al primario, autorizzandosi a negoziare (pur tra molte difficoltà) un assetto di lavoro (contenitore) per sé e per il gruppo.

2. Progetto di ricerca EDU.CARE per la formazione di assistenti agli anziani
Nell'ambito di un progetto di ricerca europeo coordinato dall' Università della Tuscia di Viterbo, si è progettato un percorso formativo per psicologi che hanno incarichi di formazione di assistenti agli anziani (“badanti”) presso istituzioni e famiglie private. Il corso ha previsto un'osservazione sul campo di varie coppie assistenti/anziani con la compilazione di un diario esperienziale e riunioni di supervisione sulle osservazioni svolte. Nel gruppo è emersa l'importanza dell'analisi dei propri vissuti da parte delle assistenti nel loro lavoro con gli anziani. Le assistenti spesso straniere e socialmente deboli tendevano ad instaurare rapporti di forte identificazione con gli utenti senza riuscire bene a mettere a fuoco il “dentro e il fuori” del loro lavoro. L'anziano diventava così un oggetto da “accudire” con autoritarismo e su cui rivalersi per mitigare il proprio sentimento di inferiorità sociale. Viceversa, nella maggior parte dei casi, si tendeva a creare un legame di stretta dipendenza reciproca con fenomeni di progressiva esclusione della famiglia e la rinuncia a svolgere un lavoro di stimolo e supporto alla autonomia realisticamente possibile per gli anziani. Attraverso gli incontri di supervisione di gruppo i formatori hanno messo a fuoco queste dinamiche difensive. La loro riflessione professionale e istituzionale ha aiutato gli assistenti/anziani ad acquisire una maggiore sensibilizzazione empatica ai bisogni dell'anziano e a svolgere una minimale autoriflessione professionale. Alla fine delle osservazioni alcuni miglioramenti sono stati notati sia dagli anziani assistiti che dalle assistenti stesse, alcune delle quali hanno chiesto di poter continuare a svolgere dei gruppi di autoformazione con il supporto dello staff di ricerca del progetto.

3. Progetto di ricerca europeo REHAB per il personale sociosanitario e di custodia penitenziaria
Questo progetto si è avviato nel 2014 presso il carcere “Mammagialla” di Vierbo, ed è attualmente in svolgimento, con termine nel 2016. Esso prevedere, tra l'altro la formazione degli operatori sociosanitari (psicologi ed educatori) alla gestione di sensitivity groups da parte dello uno staff di ricerca con preparazione psicoterapeutica.
Basandosi sul modello dei gruppi Balint e della esperienza del Grendon Undewood Prison si sono iniziate a svolgere delle sessioni nelle quali viene riportato ed esplorato il vissuto degli operatori verso l'ambiguo ruolo di “repressore/educatore” proposto dalla istituzione. Sono emerse interessanti associazioni con il tema del “guaritore ferito”, l'impotenza delle fantasie salvifiche, interrogativi su come ricercare delle comunicazioni autentiche con gli agenti e detenuti evitando assetti difensivi di collusione, manipolazione o di negazione.
Queste brevi situazioni possono essere un esempio piccolo ma significativo delle possibilità varie e flessibili che una moderna psicoanalisi applicata alla dimensione sociale e istituzionale possiede. Personalmente credo che gli interventi non siano affatto semplici né da semplificare, anche se le persone attendono spesso un supporto che alleggerisca i loro fardelli emotivi e lavorativi. Credo anche che la psicoanalisi applicata possa avere uno spazio più dinamico e complesso rispetto ad altri approcci basati su di problem solving operativo relativamente lineare.
Aggiungerei che lavorare empaticamente con i gruppi non è né ingenuo né facile; i gruppi spesso presentano resistenze, difese, ansie profonde. Se il contributo freudiano ci mette in guardia verso la difficoltà di rinuncia al soddisfacimento pulsionale immediato nel nostro vivere sociale e organizzativo, il contributo kleiniano e socioanalitico ci fa comprendere che non solo esiste la freudiana ambivalenza verso il lavoro sociale, ma al contrario esistono dei vischiosi tropismi verso l'istituzione utilizzata come luogo evacuativo e di difesa da ansie primarie. La psicoanalisi applicata al gruppo e alla analisi organizzativa e istituzionale offre però l'opportunità di creare un campo empatico dove la comunicazione può tentare di avvenire liberamente con un effetto di conforto e apertura sulle persone’’ come afferma anche Britton (2013) nella sua concettualizzazione dello spazio triangolare. Una ultima considerazione riguarda l'importanza di considerare prioritario il sentire e il fare analitico per incontrare la domanda degli utenti e non di far aderire gli operatori a qualche modello formalizzato, concordando per altro con quanto scriveva Freud molti anni fa nella introduzione al libro dell'educatore Aichorn.

Bibliografia
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Gianluca Biggio (SIPP)
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00151 Roma
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