E. Laurora. Nuove frontiere nella Psicoterapia Psicoanalitica

Relazione presentata al
Convegno nazionale SIPP
‘Psicoterapia psicoanalitica e mutamenti sociali’
Bologna 4-5 Dicembre 2015

 

 

 

NUOVE FRONTIERE NELLA PSICOTERAPIA PSICOANALITICA

Enza Laurora

 

Frontiere originarie e domande attuali

La psicoterapia psicoanalitica è da sempre applicazione dei principi della psicoanalisi nella pratica clinica di frontiera, anzi nasce dalla priorità della cura sulle finalità conoscitive. Prende a svilupparsi, non a caso, fra professionisti impegnati in contesti istituzionali di cura, dove, sia per la natura del contesto che per la tipologia delle sofferenze psichiche trattate, era fuori discussione l’applicazione dei criteri che l’istituzione psicoanalitica riteneva indispensabili per condurre una cura fatta con il metodo psicoanalitico. Nata come psicoanalisi a setting modificati, la psicoterapia psicoanalitica ha guadagnato una sua specificità approfondendo i significati psichici inconsci del setting, sviluppando la capacità di metterli al lavoro in stretta congiunzione con la relazione analitica, come altro luogo della vita inconscia della coppia analitica, e dispositivo di trasformazione psichica. Non solo, ha maturato una visione profondamente intersoggettiva e gruppale dello sviluppo della vita psichica, del mantenimento dell’equilibrio psichico nel corso della vita e delle condizioni che ne permettono la trasformazione nel lavoro della cura. Già caratterizzata da una particolare attenzione al mutuo rapporto fra realtà interna e realtà esterna, oggi è particolarmente attenta alla necessità di mantenere una ‘visione binoculare’ che non ci faccia mai dimenticare che l’organizzazione intrapsichica è anche frutto dell’esperienza di essere uomini del proprio tempo. Le domande che oggi ci attraversano non riguardano più solo la possibilità di offrire cura e promuovere crescita psichica in quadri patologici lontani dalle organizzazioni nevrotiche, nelle varie età del ciclo di vita e in contesti diversi da quello individuale, sono più radicali, richiedono ulteriori passi di sviluppo sia clinico che teorico. I cambiamenti che viviamo configurano una situazione epocale di particolare criticità perché incrinano le strutture sociali e culturali che, garantendo la differenziazione degli spazi, offrono le cornici necessarie allo sviluppo e al mantenimento della vita psichica individuale e intersoggettiva. Come dice Kaes (2012), ‘minacciano le condizioni stesse che ci consentono di divenire soggetti della propria vita psichica e attori della vita sociale e culturale’. Siamo obbligati quindi a tenere ben presente nella nostra mente che la pratica clinica, le costruzioni teoriche e il senso dello stare al mondo oggi sono strettamente intrecciati e il nostro impegno su un fronte implica contemporaneamente anche quello sugli altri. Cercare risposte a queste nuove domande comporta coraggio nella pratica clinica, ricerca teorica ed impegno etico.

 

Essere psicoterapeuti psicoanalitici nel tempo della dismisura

I cambiamenti sociali della postmodernità, globalizzata, iperconnessa e insieme iper e iporeale, esercitano potenti pressioni centrifughe sull’integrità del nostro sentimento di esistenza e sui processi integrativi che sostengono funzioni di pensiero, a tutti i livelli: individuale, gruppale, istituzionale. A livello individuale, i nuovi stili di vita, all’insegna dell’accelerazione temporale, della indifferenziazione interno-esterno e dell’onnipotenza ubiquitaria alimentata dalla realtà virtuale, tendono a frammentare e a destrutturare l’esperienza vitale. Inoltre l’eccesso sia nell’intensità che nella frequenza delle stimolazioni sensoriali ed emozionali da cui siamo bombardati, stabilizzano nel soggetto risposte difensive di carattere dissociativo. Alla maniera di vere e proprie esperienze traumatiche, non consentono di ‘apprendere dall’esperienza’. L’inevitabile restrizione di coscienza che ad esse si accompagna rafforza a propria volta il funzionamento dissociativo. Risposte di scarica agita, dipendenze di vario genere, deindividuazione, abbattimento dei limiti e altro ancora, attivano un circolo vizioso maniacale-depressivo, stabilizzano funzionamenti sociali di massa e dispersioni di identità. In breve ci portano in aree di sofferenza di tipo narcisistico e borderline, dove ampie irruzioni di funzionamenti mentali primitivi, ci immergono in una materia emozionale che preme da tutte le parti. La prima forma con cui sperimentiamo questi mutamenti, nella nostra pratica clinica, è la potenza con cui la realtà esterna irrompe, lacerando gli involucri. Da quella speciale membrana creata dal setting garante della coesistenza di livelli multipli di realtà, alla pellicola psichica nella mente del terapeuta che sta alla base dell’ascolto psicoanalitico. Vi concorrono l’horror vacui degli attuali stili di vita, l’individualismo sfrenato, il consumismo, la precarietà delle fonti di reddito, la mobilità delle destinazioni di lavoro, la vita in rete. Ne risultano: riduzione della frequenza settimanale, difficoltà di mantenere il setting sia a livello di presenza concreta che di pagamento, moltiplicazione dei canali di comunicazione. Penso in particolare all’uso del cellulare, divenuto ormai ‘normale’ nella comunicazione fra paziente e terapeuta e alle richieste di proseguire la psicoterapia via skype o via telefono nel caso di spostamenti geografici o richiesta di psicoterapie via skype tout court. Inoltre la diffusione di identità del paziente sbarca nella stanza di analisi alla stregua di una folla di migranti e la dispersione del suo essere ci investe come l’onda di risucchio di uno tsunami che ritorna portando a riva quel che resta dopo l’impatto di emozioni senza forma. Per non parlare di quegli eventi che ci fanno sentire in forma assoluta la precarietà dello stare al mondo. Non dimenticherò mai una seduta con una ragazzina ventenne. Arrivò tremante, erano poco più delle 17 dell’11 settembre, aveva appena saputo del crollo delle torri gemelle. Lei usava il lettino all’epoca perché non osava guardarmi, ma quel giorno entrò con il terrore negli occhi e restò in piedi guardandomi fissa: era appena tornata da un anno di studio a New York e usava andare in una biblioteca proprio lì, a studiare. Rimanemmo entrambe impietrite, il silenzio rotto dal pianto, brandelli di immagini viste in tv, brandelli di ricordi. Le tenni la mano, ma la sua mano teneva anche la mia.
Tornando alla vita quotidiana, esperienze di troppo pieno e di troppo vuoto, ci espongono ad un continuo traumatismo del ritmo endogeno naturale proiettivo-introiettivo che rende possibile costruire la propria identità e legami stabili con gli altri. Siamo nati e cresciuti sulla frontiera sviluppando capacità di ‘vedere’ il senso del lavoro della cura, di coglierne la portata strutturante in contesti diversi, ma oggi la frontiera diventa a tratti una trincea. Ma c’è davvero una guerra, di quale guerra si tratterebbe e chi sarebbero gli alleati, chi i nemici? Forse la guerra è quella contro i limiti, la finitudine, la morte.
Viviamo nell’epoca della dismisura e dell’indifferenziazione ed è all’interno di questa che continuiamo ad avvicinarci alla vita dei nostri pazienti, alle modalità con cui ce la raccontano, sempre più cimentati ad andare contro l’evoluzione entropica della vita psichica e ad andare incontro allo smarrimento dell’essere. Ci confrontiamo ogni giorno con la mancanza di forma che sembra essere alla base delle sofferenze psichiche in cui si organizza il malessere dei tempi moderni. Ma non soffriamo solo quella che il paziente immette nel campo analitico, soffriamo anche la pressione deformante che l’esperienza clinica quotidiana esercita sul nostro assetto mentale, a partire dalla cornice stessa che ci consente di lavorare. Ad un estremo di un ipotetico continuum troviamo quelli che rispondono alle sollecitazioni centrifughe della postmodernità mantenendo una adesione talvolta rigida alle cornici teoriche in cui si riconoscono. Essi sono costretti ad operazioni di semplificazione attraverso il restringimento dell’osservazione del campo esperienziale in cui sono comunque immersi. Per così dire resistono alla pressione mantenendosi aggrappati a cornici teoriche collaudate, ma necessariamente conservano in forma muta il turbamento di ciò che è rimasto fuori, di ciò che la persona dello psicoterapeuta comunque vive ma che rimuove o dissocia, per bisogni di sicurezza.
All’altro estremo troviamo coloro che privilegiano l’adesione all’esperienza clinica e a partire da essa cercano creativamente soluzioni soffrendo una quota di dolore mentale perché i pensieri sollevati dalla pratica non trovano nelle cornici teoriche a disposizione, un contenitore adeguato. Essi soffrono il turbamento di verità da cui si lasciano attraversare e di cui portano testimonianza nei loro resoconti clinici ma a cui non sanno dare un senso pieno in relazione alla storia e allo sviluppo del pensiero psicoanalitico. Tra i due estremi coloro che utilizzano molti modelli dello sviluppo psichico e della psicopatologia a seconda delle necessità imposte dal lavoro clinico. E anche questa posizione non è esente da costi, si accompagna spesso ad un fondo emotivo inelaborato, una sensazione intima di tradimento nel passaggio da un modello ad un altro. Ma in tutti i casi, una nuova quota di pensieri non elaborati è esportata nel corpo stesso delle associazioni scientifiche, e rimessa in gioco nella dimensione gruppale dell’istituzione. Può rimanere incistata in forma di scissione e conflitto o, divenire spinta allo sviluppo trasformativo dell’eredità dei padri fondatori nella misura in cui le istituzioni scientifiche stesse se ne assumeranno il carico. Un compito allo stesso tempo etico e scientifico. Sta a noi. L’incontro di oggi è nel novero delle possibilità che possiamo darci di pensare insieme per scrivere un’altra pagina dell’evoluzione del pensiero psicoanalitico e dei modi in cui la psicoterapia psicoanalitica la invera.
Un aneddoto. Questa estate, mentre ero in vacanza, mi è capitato di leggere di un nuovo ristorante dove uno chef stellato, propone, per la modica cifra di 1600 euro a persona un’esperienza sensoriale globale in cui gli ospiti, ovviamente in numero ridottissimo, siedono tutti attorno ad uno stesso tavolo e degustano eccellenti piatti immersi in una realtà virtuale a tre dimensioni che li trasporta, attraverso la rete, grazie al potere evocativo di immagini, profumi, giochi di luce e musica nell’ambiente naturale da cui origina il piatto, e una portata dopo l’altra, alla fine, in tutto il mondo. Quando ho letto questa notizia, non ho provato il desiderio di sperimentare una situazione di quel genere, ma ho pensato alla tavolata della domenica a casa mia, quando ero ragazzina. Tra figli, genitori e nonni, eravamo su per giù tanti quanti gli ospiti che potevano partecipare alla cena del Sublimotion di Ibiza, ma il cibo di cui ci nutrivamo non ci portava in tutto il mondo, piuttosto la fusione dei sapori, ci riavvicinava al centro della madre terra in cui eravamo nati e di cui ci saremmo portati dentro tanti misteri, incluso quello delle preparazioni, che non sarebbe bastata un’intera vita per catturarli. E intanto si chiacchierava, si pensava e si sognavano altri mondi da scoprire, alimentati dall’esperienza di un luogo capace di farci ritrovare il sentimento di esistenza. Beninteso, non ho nessuna nostalgia per la cultura della provincia italiana del sud degli anni cinquanta, piuttosto l’accostamento di queste due immagini, la prima stimolata da una notizia e l’altra ripescata dalla memoria, mi ha portato a pensare ai due stati mentali fra cui ci troviamo ad oscillare oggi mentre viviamo e mentre facciamo il nostro lavoro. Ho pensato al rovesciamento dei contenitori psicosociali, a questi spazi psichici concavi parassitati da pseudopensieri, aperti sull’infinito verso una rarefazione del sentimento di esistere, verso un tempo immobilizzato nell’orgia della fruizione sensoriale. E di contro ho sentito il bisogno di attingere alla memoria. Nel frattempo mi si raffreddava il piatto che avevo davanti per il pranzo. Quante volte finiamo al sublimotion e quante volte ritorniamo con la memoria alla casa originaria? Sul piano metaforico non possiamo evitare una cena al sublimotion, né rimanere sempre nei luoghi originari, ma dobbiamo difendere spazi psichici in cui sostare, che ci consentano di pensare e di continuare ad arricchire la nostra esperienza. Mai come oggi, il cuore del lavoro relazionale della psicoterapia psicoanalitica sta nel ripristinare la convessità dello spazio psichico che delimita la superficie di confine tra la realtà interna e la realtà esterna, ma allo stesso tempo a non rimanere intrappolati in esso. Questa acquisizione primaria del nostro sviluppo rimane la risorsa di base per mantenere integrità ed equilibrio psichico per tutto il resto della vita e soprattutto la condizione per cogliere fatti nuovi e pensare.

 

Esperienze cliniche e fatti analitici: alcune proposizioni

Con la pratica clinica a frequenza ridotta, e spesso in vis-a-vis, l’emergere della nevrosi di transfert non getta più sulla scena analitica luce sufficiente per illuminare la strada da seguire. Dopo un primo smarrimento, abbiamo imparato ad osservare fatti nuovi nonché a riconoscere dettagli significativi di fatti clinici già ampiamente accolti nel loro complesso. Nonostante gli aspetti soverchianti della realtà odierna prima accennati, il nostro lavoro è ricco e produttivo, e più che mai adatto a dare risposte strutturanti alla sofferenza psichica. A volte siamo colti dallo stupore per il nuovo che si forma sotto i nostri occhi, mentre lavoriamo, magari ad una sola seduta alla settimana con un paziente difficile. Anche se manteniamo ferma nella nostra mente a guidarci la bussola interna del movimento transfert/controtransfert e dei nostri modelli teorici, dobbiamo constatare che accadono congiunzioni psichiche che allargano gli orizzonti della coscienza, tracciano nuovi percorsi psichici e costruiscono nuovi ambienti mentali abitabili, anche quando abbiamo l’impressione di non sapere bene su quale strada ci stiamo muovendo e per dove. E invece accadono, quasi a nostra insaputa. Ci chiediamo: come si è potuta costruire con quel paziente, quella strada se tante volte siamo usciti dalla seduta con la sensazione di un buon lavoro che tuttavia non avremmo saputo descrivere se non nei termini di una conversazione ordinaria o se, altre volte siamo rimasti con la sensazione di esserci parlati senza sapere dove fosse l’uno e dove fosse l’altro per scoprire, magari dopo, che la conversazione aveva costruito un tunnel di connessione, una strada nuova, uno ‘sviluppo urbanistico’ del suo mondo interno?
La faccenda è che la pratica clinica oggi contribuisce più che mai a sviluppare in noi, duttilità, creatività, capacità di osservare configurazioni e ci permette di raccogliere una ricca messe di fatti analitici nuovi. Gli incontri clinici fra Colleghi sono una testimonianza di questa ricchezza e insieme luogo di condivisione e successiva elaborazione di quanto raccogliamo direttamente sul campo. Tuttavia non disponiamo ad oggi di un modello teorico che renda pienamente ragione dei fatti analitici che osserviamo, mentre sono vivi e condivisi gli interrogativi che essi pongono. Ognuno dei modelli teorici che abbiamo a disposizione ne raccoglie solo una parte. Se è vero che la pratica sopravanza sempre la teoria, è anche vero che l’esperienza clinica deve produrre teorie in grado di consentire una maggiore leggibilità di classi di fenomeni osservabili nella relazione analitica, fatti analitici, e dunque accrescimento della nostra competenza dell’azione terapeutica.
Per altro, come molti hanno osservato, i pazienti di oggi non si possono permettere di fare molte sedute alla settimana un po’ per mancanza di risorse economiche e un altro bel po’ perché possono accettare di dipendere da tutto salvo che da una relazione oggettuale. A proposito di quest’ultimo aspetto, penso che il trattamento a frequenza ridotta consenta un lavoro psichico fruttuoso proprio perché, pur rispondendo a sofferenze riguardanti gravi mancanze di integrazione o di sviluppo psichico, può evolversi favorendo allo stesso tempo il mantenimento di un certo equilibrio in corso d’opera. Anzi spesso osserviamo che le difese si trasformano per così dire dal di dentro, come effetto di un lavoro psichico capace di mobilitare contemporaneamente più livelli, senza che, almeno per un po’, divengano esplicitamente oggetto della comunicazione fra paziente e terapeuta. A volte, bisogna dire, si tratta di veri e propri equilibrismi con pazienti ai quali, a pensarci a mente fredda, verrebbe da proporre quattro o cinque sedute alla settimana.
Per quanto brevemente detto prima circa le forme della sofferenza più diffuse, i pazienti di oggi convivono con sofferenze primarie del Sé derivanti da una strutturazione povera o lacunosa che rende l’Io debole e incapace di sostenere adeguatamente la vita emozionale del soggetto. Ci troviamo sempre più spesso ad offrire nelle nostre psicoterapie funzioni di ambiente psichico strutturante, lavoro in aree primarie dello sviluppo psichico che trova nel vis-a-vis il setting ottimale per la tessitura del Sé e della relazione con l’altro attraverso la sintonizzazione affettiva. Questa comporta ed elicita l’unità mente-corpo a livello primario e insieme pone le basi della regolazione emozionale. Anzi il cuore della nostra risposta terapeutica ai bisogni di oggi, non riguarda più tanto la risoluzione dei conflitti inconsci che bloccano le risorse psichiche, ma sta a monte della possibilità di vivere il conflitto, si colloca in quell’area primaria che fonda il sentimento di valore del Sé e dell’altro, consente la nascita della coscienza e lo sviluppo del narcisismo sano. Questa dimensione, che risponde ai bisogni più urgenti di cura, si impone sempre più all’attenzione. Essa trova nella qualità dell’ascolto psicoanalitico, nel ritmo dell’interazione intersoggettiva, nel contenimento emozionale e nelle parole che toccano, la via per raggiungere e curare nella ‘carne psichica’ quelle ferite che i nuovi stili di vita infliggono a chi cresce e riaprono in chi non trova più nella struttura familiare e sociale adeguati appoggi difensivi. Un primo fatto analitico deducibile è che un fattore importantissimo e molto profondo della cura è affidato alla molteplicità di livelli della vita psichica che lo scambio analitico sintonizzato può mettere in moto congiuntamente, avviando integrazione.
Questa ricchezza esperienziale preme per una riconcettualizzazione psicoanalitica e ci risospinge verso lo studio delle forme dell’inconscio e insieme delle caratteristiche della coscienza, nonché del transito inconscio-preconscio-coscienza (Sasso, 2011). La coscienza è tornata alla ribalta dell’interesse di alcuni psicoanalisti che hanno sentito l’esigenza di ripensare il rapporto fra inconscio, preconscio e coscienza, non tanto lungo il vettore che rende conscio l’inconscio, quanto nell’area delle connessioni fra inconscio, preconscio e coscienza, vero motore della trasformazione psichica e della creatività. Queste considerazioni spostano il vertice da cui vedere la trasformazione psichica ed è proprio nella pratica clinica che troviamo ragioni per immaginare in un modo più ampio il significato dell’azione terapeutica, il significato e insieme il valore della psicoterapia psicoanalitica. Ma questo cammino non lo possiamo fare da soli e in modo autoreferenziale, vale a dire solo dall’interno del nostro sapere. Come dice Lichtenberg (2014) ‘…nel tentativo di sostanziare le nostre teorie dobbiamo cercare concordanze fra l’esperienza clinica, la ricerca e l’osservazione dello sviluppo, e le acquisizioni delle neuroscienze’. Il metodo psicoanalitico si fonda sull’osservazione soggettiva, è una scienza a statuto speciale, e tuttavia quanto risulta dalle scienze oggettive deve essere patrimonio della nostra cultura, tanto quanto l’arte, la filosofia, la letteratura, il linguaggio. La psicoterapia psicoanalitica è nata e rimane una cura parlata, che penso debba riservare attenzione agli studi sul linguaggio. Ognuno di noi intuisce, quando legge una poesia, quanto poco astratta possa essere la parola e quanto sono ricche le sue connessioni con l’inconscio, il serbatoio originario di ogni creazione della mente umana.
Tornado alla pratica clinica, un altro importante fatto analitico estraibile da essa è l’ubiquitarietà dei meccanismi dissociativi mobilitati a fronte della generale traumaticità della nostra vita quotidiana, amplificata dalle fonti interne di traumatismo derivanti da debolezze strutturali e mancanza di risorse per elaborare le emozioni. Abbiamo bisogno di imparare a lavorare con la dissociazione perché non è la stessa cosa della rimozione e della scissione. Essa richiede di trovare vie di accesso agli spazi tra le aree dissociate, capacità di abitare i luoghi della non esistenza psichica che il traumatismo crea, per gettare ponti di connessioni psichiche e condizioni di transitabilità.
Nuovi spazi di espressione della vita psichica e del lavoro della cura
Viviamo nella società tecnologica. Ne siamo ampiamente beneficiati perché affranca dalla fatica fisica, protegge da pericoli, amplia enormemente gli effetti della nostra opera, abbatte il muro della distanza, favorisce lo scambio culturale, rende tutto più sicuro, più veloce e più possibile. Il fatto è che la rapidità con cui lo sviluppo tecnologico ci mette a disposizione strumenti sempre nuovi e più efficaci, è di gran lunga superiore alla capacità della mente umana di appropriarsene per meglio esprimere i suoi bisogni, e portare a compimento la sua natura, ovvero per renderli funzionali al vivere bene e preservare le condizioni generali che ci consentono la vita. Penso in particolare alle possibilità che la rete offre alla comunicazione umana e allo spazio virtuale in cui si sviluppa. Perché è facile sentirsene scavalcati, posseduti, trovarsi ad utilizzarli in maniera meccanica per l’immediato ritorno pratico, ben prima di essere riusciti ad umanizzarli. Umanizzarli significa immetterli in una struttura di senso che ci mantenga in armonia con tutte quelle dimensioni di base della vita psichica che hanno bisogno, da sempre, di tempo per crearsi e ricrearsi. Questo gap mette a rischio soggetti in crescita e soggetti adulti fragili perché alimenta la scissione mente-corpo. Il corpo diventa il luogo psichico del limite invalicabile, delle differenze, della finitudine, del tempo che passa. Un corpo che può essere condotto a ragione da manipolazioni di vario genere e dalla chirurgia estetica. La mente può utilizzare le tecnologie in modo protesico per imboccare derive onnipotenti negli spazi virtuali. Ne risulta che oggi di fronte ad un passaggio difficile della vita, un soggetto umano vulnerabile può attingere a strategie difensive nuove, imboccare strade apparentemente facili per lenire o addirittura negare la sofferenza. Di fatto pericolose trappole che creano nuove e a volte drammatiche forme di dipendenza e di perdita di significato della vita. Anche di queste nuove organizzazioni patologiche stiamo facendo esperienza clinica, impegnati a trovare modi per risalire verso la pensabilità. Ma ancora di più ci troviamo a fare, giorno dopo giorno, lavoro di umanizzazione, a dare significato, insieme al paziente alle ragioni per cui ricorre ad una soluzione tecnologica e al modo in cui lo fa. Ma le questioni aperte sono molte: che ruolo giocano le nuove vie create dalla tecnologia nello sviluppo della nostra mente? Quale il significato degli spazi intersoggettivi virtuali per la nostra economia psichica? Come influiscono sulla formazione della nostra identità?
Ed eccoci ad un’altra nuova frontiera: l’irruzione di strumenti tecnologici nel nostro lavoro quotidiano. La prosecuzione via skype della psicoterapia con pazienti che hanno necessità di trasferirsi in sedi di studio o di lavoro lontane e non vogliono interrompere la psicoterapia, è entrata quasi da sè nella prassi clinica, sotto la pressione del bisogno di privilegiare la continuità dell’esperienza anche a scapito della perdita della presenza fisica. Per la maggioranza di noi prima che avessimo pensato di farne un dispositivo di cura e sicuramente molto prima di averne compreso bene le implicazioni, ma con il coraggio di osare nuove pratiche e la fedeltà allo spirito di ricerca che caratterizza il metodo psicoanalitico.
Auguro a tutti noi un convegno fecondo, appassionato e gioioso.

 

Bibliografia

Kaes, R. (2012) Il malessere. Borla, Roma 2013
Lichtenberg, J.D. (2014) Credo. Psychoanalityc Dialogues, 24, 2. 2014.
Sasso, G. (2011) La nascita della coscienza. Astrolabio, Roma

 

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