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Anna Sabatini Scalmati. Lo spazio terzo tra Freud e Kaes

Il terzo della triangolarità edipica
Il claudicante Edipo è l'eponimo che dà nome alla burrasca pulsionale connessa alla presenza del terzo e al non totale possesso della madre. Il padre allontana il figlio, il terzo che potrebbe detronizzarlo, il figlio uccide il padre e prende il suo posto nel talamo.
Di tale figura «io nato di chi nascer fu colpa: io che marito mi feci a chi mai non dovea: che morte diedi a chi dar non la dovea giammai» (Sofocle, pp. 1151, 4), Freud, il 15 ottobre del 1897, scrive a Fleiss:
«Essere del tutto onesti con se stessi è un buon esercizio. Mi è nata una sola idea di valore generale: in me stesso ho trovato l'innamoramento per la madre e la gelosia verso il padre, e ora ritengo che questo sia un evento generale della prima infanzia […]. Ogni membro dell'uditorio è stato una volta un tale Edipo in germe e in fantasia e, da questa realizzazione di un sogno, trasferita nella realtà, ognuno si ritrae con orrore e con tutto il peso della rimozione che separa lo stato infantile da quello adulto1» (1887-1904, p. 306).
Catturato da questa mitica storia, Freud si muove alla ricerca di ciò che si nasconde dietro l'alterigia del borghese dell'Ottocento, la vita umiliata e sofferta della sua donna e l'agitarsi dell'isterica, nella trama dei sogni e nel sapere svelato dall'ipnosi. Pone attenzione all'inatteso manifestarsi dei sintomi, dei lapsus, degli atti mancati, indici della conflittualità che abita l'umano, dei nodi che lo avviluppano e abbarbicano le loro radici in aree a cui la razionalità non sa dare nome, sebbene del loro impetuoso agitarsi strillino le cronache.
Sfida l'enigma che si cela nella nevrosi e senza ritrarsi affonda lo sguardo nell'ordinamento sociale del XIX secolo, nella Cultura/Civiltà (Kultur); cerca indicatori atti ad avvicinare un sapere qualificato a comprendere le difficoltà interne al vivere, a dare nome al quid che rende difficile adeguarsi alle leggi del collettivo. Interroga la psichiatria del XVIII e del XIX secolo, ma questa - attestata sulla superiorità della ragione sulle pulsioni, sulle causalità organica (lesioni del cervello), e/o sulle tare ereditarie, sulla degenerazione morale (sregolatezza sessuale, masturbazione, alcolismo) - non lo soddisfa. Va oltre, oltrepassa il territorio della coscienza e affaccia l'inconscio, non quale aria del fantasticare e del sentire che agisce all'ombra del pensiero, campo di influenza degli dei che dall'alto osservano e guidano l'umano, di cui narra il mondo greco, ma l'inconscio quale area ignota, epicentro di pulsioni che sfidano il pensiero e mettono in scacco la razionalità ove perennemente confliggono pulsioni e affetti, bisogni e norme culturali. Presta attenzione al non detto dei sogni, ai dissidi che dalla mano di Caino sono rimbalzati nelle raggelanti saghe familiari rappresentate negli emicicli greci e, con un imprevisto scacco matto, sconvolgono le famiglie e la società. Quale novello Robinson Crusoe, da un vertice essenzialmente solipsista2 della costruzione dell'apparato psichico, si piega all'ascolto delle richieste dolenti e gioiose del vivere: fame, sessualità, desideri, bisogni centrati sul sé che, se misconosciuti e duramente repressi, danno fuoco ai confitti che oppongono i bisogni al dovere, gli affetti alla colpa, il figlio al padre, la figlia alla madre.

Sulla scena del sapere ufficiale Freud introduce causalità etiologiche che muovono passioni che, quali lanterne magiche, proiettano sulle pareti della mente e del vivere visioni che aprono l'accesso a desideri e a pulsioni negate. Causalità etiologiche che, come vedremo, interrogano la rete relazionale, il sociale e i loro reciproci legami3.
Ma lasciamo per ora queste considerazioni per avvicinare il momento epifanico in cui l'infans prende atto della presenza, accanto e nella mente della madre, di qualcosa che ben presto si delinea come un importante Altro. Presenza conturbante, successiva ad altre inattese disarticolazioni.
Alla violenta separazione della nascita: scissione dell'uno in due, non più due in uno, ma uno, madre, e uno, neonato. Corpi separati che giammai potranno riunirsi. Espulsione dall'Eden, entrata nell'isolamento del mondo gassoso, a cui, dopo non molto, seguirà un'ulteriore amara delusione. Il seno non è il presunto dono della cavità orale che ripetutamente produce latte e placa l'esplosiva richiesta della fame. La bocca è vuota; la bocca vuota origina il grido, poi la parola che chiama, chiede sostengo per affrontare l'affannoso pulsare del corpo e i tumultuosi moti pulsionali.
Mentre il bambino affonda il proprio corpo nella presenza carnale, olfattiva della madre, sempre più distintamente percepisce che è esterna alla sua pelle. Il pittogramma4 che li vedeva uniti vacilla. Gli organi distati, la vista e l'udito, preso il sopravvento sulla responsività tattile e cinestetica, rendono via via più chiare le immagini e, oltre la madre, è ora possibile distinguere la figura di un altro, il padre che, da ombra confusa, lontana, si fa via via più netta, più grande, fino a sovrapporsi a quella della madre, a raddoppiarne la figura. Di tale apparizione Gaddini scrive, il padre «sembra essere sperimentato dal bambino come una serie inaspettata e sconcertante di mutamenti nel solo oggetto che egli conosce, la madre. A un capo di una tale serie ci può essere l'immagine tremendamente ingrandita della madre, praticamente raddoppiata in volume e in numero di arti […] dall'altro capo la madre appare come definitivamente scissa in due entità separate» (2002, p. 338).
Questo Altro che occupa la scena, sebbene presente fin dall'inizio, insinua tra il suo corpo e quello della madre un qualcosa, un quid a cui non sa dare un nome, che impone al piccolo di prendere atto che la madre non è esclusivamente dedita a lui; ulteriore crepa nella collusione che li legava, ulteriore esperienza di sottrazione.
Questo Altro, figura strana, elude il registro del bisogno e «provoca la prima breccia nella collusione originaria che rendeva indissociabili il soddisfacimento del bisogno del corpo e il soddisfacimento del “bisogno” libidico» (Aulagnier, 1975, p. 199). Questo Altro, oggetto del desiderio della madre, governatore di un altro piacere, surclassa il bambino, gli svela la sua impotenza e lo pone di fronte a un bivio: o tenta di sedurre il padre «nella speranza di avere lo stesso ruolo della madre nel registro del suo desiderio» (ibid., p. 200) o lo odia.
Netta, definitiva perdita di esclusività, germe incancellabile di gelosia, rivalità, competizione. Il bimbo ha davanti a sé una scena che lo esclude. Scena che l'obbliga a prendere atto del crollo delle sue sensazioni/rappresentazioni.
«Il processo originario5 ove tutto è autogenerato si sgretola; alla psiche il compito di dare una nuova lettura delle percezioni/sensazioni di cui fa esperienza, il compito di affrontare il giro di boa e prendere atto della separazione. Poi andare oltre, disinvestire il processo originario, non disperdere i dati di cui viene confusamente in possesso, aprirsi al processo primario che, con netti colpi di martello rende evidente che il suo piacere e il suo dispiacere dipendono dalla presenza o dall'assenza, dalla dedizione o dall'incuria di coloro a cui è legato: di essere nelle mani del desiderio dell'Altro» (ibid., p. 111).
Conflitto che innesta un inestinguibile senso di perdita per qualcosa che non si può perdere, perché non è mai esistito, che obbliga a coniugare il bisogno alla mancanza, il sé con l'ineludibile separatezza, il desiderio di possesso alla condivisione, il narcisismo al «socialismo», il rapporto che unisce i due coprotagonisti al terzo. Al padre estraneo alle primordiali sensazioni placentari, estraneo al corpo che gli dà il latte, alla voce, ai gesti intrisi di sentire primordiale.
Elaborazione che non si decanta spostando sul padre i risentimenti legati alla madre, o riversando su di lui ciò che nella prima figura è andato perduto, ma chiede di riconoscere – constatazione propria del processo secondario - il venire meno dell'esclusività dell'oggetto, il dissolversi di un legame che si pensava incancellabile, lo svanire di una visione che si voleva eterna.
Confitto che, se superato, avvia la psiche a prendere atto delle differenze di generazione e di sesso, apre al simbolo, alla sublimazione e all'identificazione con figure che via via agganciano nuovi interessi e arricchiscono l'Io, sia nel dare sia nell'avere, di nuovi investimenti libidici.
Triangolazione - non mera vicissitudine dello sviluppo infantile - che riproporrà negli anni a venire una sempre nuova e sofferta elaborazione. Ogni nuovo oggetto che intrude nella vita di una coppia fa vacillare antichi equilibri, solleva elementi conflittuali che riaprono questa antica ferita. Nella cenere torna a bruciare il dolore del lutto, stride l'amara percezione della solitudine e la precarietà del cammino. Nodo scorsoio che chiede alla psiche - per non essere serrata in sterili, violente rivendicazioni di diritti, o chiusa nella botola della depressione - un lavoro sottile, aperto al dolore che la sostenga e permetta di affacciare nuove esperienze e, dal vuoto della mancanza, trarre forza per trasformare il «legame» d'oggetto, in «rapporto» d'oggetto per poi - riconosciuta la natura, il comportamento, l'alterità dell'Altro - «fare uso» dell'oggetto e quindi continuare ad investire nuove seppure sempre precarie relazioni6.
Con l'affondare della clinica in aree precoci della vita psichica, dietro il nodo edipico svelato da Freud, si rivela la presenza di un vissuto emotivo che oltrepassa la rivalità familiare ed affaccia un inatteso doppio fondo. Dietro la perdita dell'esclusività della madre e la presenza del padre, affiora una difficile realtà: l'essere umano è una monade al cospetto di leggi a lui estranee. Scrive la Aulagnier:
«Il padre, prima di occupare il posto del rivale edipico, si è presentato alla psiche come incarnazione nel fuori-sé della causa della sua impotenza a preservare integro, e in maniera autonoma, uno stato di piacere: il padre [si è rivelato] responsabile di un ordine del mondo che resiste agli ordini della psiche. Sulla scena del reale appare colui che si impone come il primo rappresentate degli altri e, insieme, come il primo rappresentante di. una legge che fa del dispiacere un'esperienza a cui non si può sfuggire» (p. 202).
Se non si tiene conto di questo «prima», di questo antefatto della conflittualità edipica, di questa apertura di campo che incontra il destino nobile e spietato dell'essere «uno», diviene difficile comprendere il fondamento emotivo, il duro prezzo che l'Io – fin dalle sue prime sensazioni - è chiamato a pagare per sostenere la temporalità, i limiti imposti dalla legge, dalle ore del vivere e, a sintesi di tutto ciò, giungere ad una amara, storicizzazione degli eventi. Se di ciò non si prende atto, come accadde a Laio, si decreta di uccidere il figlio per evitare di essere uccisi da lui. Duplice legame di morte che può essere dipanato se, al presente che lega le generazioni si affianca il futuro. Se si accede alla temporalità. Se la paternità è connessa all'assunzione di una funzione che dovrà essere trasmessa. Se ciò accade, il padre non avrà timore che il figlio lo strappi dal suo posto, ma sarà lui a dargli «nel senso più profondo del termine, il diritto di esercitare la stessa funzione in un tempo futuro» (ibid., p. 203).
In questo nodo che allaccia la vita al primordiale desiderio di uccidere, risiede lo scandalo sollevato dal pensiero psicoanalitico che, oltre la «scoperta del sessuale là dove non si vedeva che innocenza» ha svelato che il bambino «un parricida in potenza» (ibid., p. 201) e il padre un infanticida.
La relazione con la figlia non solleva gli stessi moti che slatentizzano nel padre il ricordo, cancellato dall'amnesia infantile, della sua antica ostilità verso il genitore, che ora teme presente nel figlio. La relazione con lei, meno carica di allarme, meno esposta ad orizzonti di defenestrazione, può riattivare nel padre desideri sopiti, dischiudere il cancello della rimozione e attivare il desiderio di possedere la figlia e... il precipitare all'atto incestuoso. «[...] in forma invertita, la figlia accende nel padre il desiderio incestuoso. Non avendo potuto prendere la madre al padre, prenderà la figlia agli uomini» (ibid., p. 204).
Il divenire padre e madre chiede di uscire da questa visione circolare, da un ego riferimento che annebbia la visione della catena generazionale che affida alla funzione parentale, supporto della struttura psico-fisica e voce del sistema sociale, il compito di sostenere i figli a transitare dall'atto, dall'azione di mera scarica, al pensiero che, esposto al dubbio e all'incertezza, permette di elaborare ipotesi, aprirsi al non sapere, abbattere il muro della negazione e della scissione.

 

La posizione depressiva e lo spazio transizionale
Al tramonto degli anni '20, grazie all'attenzione che la Klein presta all'ascolto delle angosce dei bambini, la psicoanalisi inizia a fare luce nel territorio oscuro degli anni 5 inghiottiti dalla rimozione primaria in cui il piccolo dell'uomo lotta a denti serrati per la vita, in cui all'oggetto madre, assolutamente necessario alla sopravvivenza, si chiede tutto e non si concede nulla, in cui tutte le cartucce del narcisismo primario sono rivolte al sostentamento del sé.
In questa discesa alle origini dell'essere nel mondo, la Kein coglie gli intensi moti pulsionali che affondano le unghie nell'Altro e gridano aiuto. Balbettii originati dalle primissime fantasie inconsce7 ove il sentire del corpo, il sé biologico, si intreccia alle voci della realtà esterna. Intreccio che annoda il nucleo affettivo all'ambiente primario, al sentire inconscio e meno che le cure riversano sul piccolo. Ove l'introiezione, le proiezione, le incursioni cannibaliche operate in fantasia nel corpo della madre si aprono al timore di ritorsione. Alternarsi di pulsioni connesse ai diversi livelli libidici, orali, anali, genitali, simultaneamente presenti. Sviluppo dell'Io in relazione alle angosce e alla loro sufficiente o deficitaria elaborazione. Oggetti parziali che, quali rappresentati nelle tavole da Hieronymus Bosch, popolano i livelli profondi della psiche.
Oggetti, pezzi di mondo, che chiedono tempo prima di comporsi in unità, spogliarsi del colore emotivo delle prime affannose richieste, acquisire la loro oggettività e quindi divenire oggetto-approdo in grado di sostenere l'Io e salvaguardare l'oggetto.
A differenza della visione sostanzialmente solipsistica dell'uomo della prima topica freudiana, la Klein nel palpitare dell'emergere della vita, ode richieste di soccorso, l'assoluta necessità di presenze recettive che incarnino l'Altro nell'Io, l'Io nell'Altro: pilastri-approdi per le giornate della vita.
Momento centrale del quadro teorico kleiniano è l'acquisizione della posizione depressiva che libera il soggetto dalle angustie della posizione schizo-paranoide e dai timori connessi alla propria sopravvivenza e lo misura con la responsabilità dell'essere- in-relazione. Con l'oggetto su cui d'emblée si riversa sia l'ambivalenza dei suoi bisogni e l'urto delle richieste pulsionali sia la necessità di salvaguardarlo: la colpa e la riparazione. Se le cose vanno bene il soggetto percepisce il suo essere uno, separato e in relazione di dipendenza dall'oggetto. Acquisizione che apre l'organizzazione psichica a un nuovo livello di strutturazione e a combinazioni affettive che vanno oltre la triangolazione edipica.
Il padre – da oggetto parziale, pene all'interno della madre o componente della figura parentale combinata, fin dall'inizio presente nella filigrana fantasmatica infantile - da oggetto a cui rivolgersi in seguito alle delusioni ricevute dalla madre e alla paura di perderla, diviene l'oggetto terzo che sostiene le fatiche del vivere e, quale voce della legge e supporto epistemofilico, introduce il figlio/figlia al senso del limite, agli interdetti che regolano il vivere sociale e al dialogo con nuovi interlocutori.
Nei solchi tracciati dall'aratro di Freud e della Klein, al Super-io freudiano e alla madre kleiniana ricca di peni e bambini delle primitive fantasmagorie, Winnicott affianca la relazione che da una doppia dipendenza8 giunge a tessere una area terza, una «struttura-individuo-ambiente»9 che, rispettosa della reciproca dipendenza, permetta al nuovo nato di fare uso di un oggetto e acquisire la capacità di essere solo.

Struttura che permette di coniugare il desiderio di presenza alla presa d'atto d'assenza; l'incontro allo iato; il contatto alla separazione. Straniante percezione di isolamento che, se sostenuta, genera l'attività simbolica che nell'oggetto transizionale, nei fenomeni transizionali (che non sono oggetti ma, ad esempio, lallazioni) e nello spazio transizionale, ha una concreta realizzazione. Area terza, area me/non me, ove l'illusione, senza la quale nessun contato è possibile tra la psiche e l'ambiente (Winnicott 1952), possa continuare a dare vita ad immagini, fantasie, sogni, miti, cultura. Area terza che sostiene la percezione del vuoto nella bocca a cui il neonato non può dare un senso ed attiva la stimolazione auto-erotica: il bimbo succhia il pollice, occulta il vuoto e mantiene viva l'illusione10 di essere creatore della propria soddisfazione.
«Noi siamo fatti della stessa materia dei sogni, da un sogno è coronata la nostra breve vita» recita Shakespeare ne La tempesta. Illusione, sogni, utopie sono comunicazioni che transitano senza filtri tra la psiche e l'ambiente. Mossa dal bisogno, l'illusione attiva l'allucinazione che, alla spinta ulteriore del bisogno, si piega all'azione. Accade così che dal quarto mese in poi, il piccolo dell'uomo estende la sua attività manipolativa dal pollice agli oggetti esterni al suo corpo e, nei momenti di sconforto, si aggrappa all'oggetto da lui prescelto. Oggetto che «Viene da “fuori” [...]. E non viene dal “dentro”; non è una allucinazione» (Winnicott 1951, p. 279), oggetto che lo contiene e l'aiuta ad entrare nelle acque della vita, oggetto simbolo di unione che «viene percepito piuttosto che concepito» (Winnicott 1967, p. 167), che deve «sopravvivere all'amore così come all'odio istintuale, e, all'aggressione pura, se questo fosse il caso» (Winnicott 1951, p. 280).
Fenomeni transizionali che, quali ininterrotte onde sonore e visive, occupano l'area intermedia tra il reale psichico e il mondo esterno, attraversano lo spazio/tempo e permettono alla mente di prendere atto che la separazione «non è una separazione ma una forma di unione (Winnicott 1967, p. 169). Che attivano una serie di esperienze relative al «tra», «quasi»; «area terza», «area me/non me», illusione «senza la quale nessun contatto è possibile tra la psiche e l'ambiente» (Winnicott 1952, p. 269). Area ove prende forma il «vero» del soggetto che non sta né da una parte, né dall'altra, ma tra le due. Area transizionale talmente determinante il benessere/malessere psichico che Winnicott scrive:
«Mentre riconosciamo il fattore ereditario nella schizofrenia e mentre siamo disposti a vedere la parte che hanno nei singoli casi i disordini fisici, noi guardiamo con sospetto qualunque teoria della schizofrenia che disgiunga il soggetto dai problemi della vita di ogni giorno e dai problemi universali dello sviluppo individuale in un dato ambiente» (1971, p. 121).
Illusione, area terza che, se le cose vanno bene, dopo gli anni del gioco entra nella vita e diviene humus che germoglia esperienza culturale, mito, religione, immagini, suoni, pensiero, ricerca, arti e provvede alla continuità della specie umana, che trascende l'esistenza personale (Winnicott 1967). Lo spazio transizionale è per Winnicott la matrice psichica dell'esperienza culturale, luogo principe ove si tesse la rete l'individuo-ambiente.
Freud, alcuni decenni prima, aveva espresso un parere diverso sul «fare» dell'umanità. Il mattatoio che, dalla estate del 1914 al novembre del 1918, aveva intriso di sangue il continente europeo, aveva mobilitato in lui pensieri che l'avevano spinto a rivedere la teoria delle pulsioni, la strutturazione dell'apparato psichico e a dare centralità alla distruttività umana nel divenire della storia. Con la lente della psicoanalisi ne ha indicato la presenza nell'organizzazione sociale in Psicologia delle masse e analisi dell'Io, nella conflittualità che contrappone le pulsioni in Al di là del principio di piacere e - a difesa dalle forze di Thanatos – nell'erezione del Totem, nelle tavole delle leggi e nell'incentivazione del pensiero.
Per Freud, la cultura, l'arte, la religione, il mito, non sono espressioni, voci di un'area terza, ma frutti secondari, compensatori alla rinuncia ad occupare il posto del padre primordiale, alla costrizione - in nome del vivere comunitario - al dettato della legge, al riconoscimento degli interdetti che vietano la realizzazione diretta delle pulsioni e gli scambi sessuali all'interno del clan.
Rimozione, simboli, sublimazione, idealizzazione, disciplinamento pulsionale, sono i mattoni che erigono le mura che sorreggono la civiltà, il fare e l'affannarsi dell'umanità. Mura costruite per anteporre la prudenza al soddisfacimento diretto e al godimento, mura a difesa dall'erompere del principio di piacere.
Scrive al riguardo in Il Disagio della civiltà:
«[...] molto semplicemente, il programma del principio di piacere stabilisce lo scopo dell'esistenza umana. Questo principio domina il funzionamento dell'apparato psichico fin dall'inizio […] eppure il suo programma è in contrasto con il mondo intero, tanto con il macrocosmo quanto con il microcosmo. È assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dell'universo si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso l'intento che l'uomo sia felice» (p. 568).
L'arte, la cultura non hanno in Freud una sede nella topografia della mente (Winnicott 1967), non sono esperienze creative del continuum spazio-temporale me-non-me, non sono aree di realizzazione di sé, ma ripieghi sublimatori, soddisfazioni sostitutive:
«Il senso di felicità derivante dal soddisfacimento di un moto pulsionale selvaggio, che l'Io non controlla in alcun modo, è incomparabilmente più intenso di quello che si ottiene saziando una pulsione addomestica. La sua intensità, a paragone del piacere “derivante da moti pulsionali più rozzi, primari, che siano stati saziati [...] è minore: non scuote la nostra esistenza corporale» (ibid., p. 571).
E ancora, le arti offrono indubbiamente delle gratificazioni, anche a colui che non è creatore in proprio, ma: «la lieve narcosi in cui l'arte ci trasferisce non può tuttavia offrirci che un'evasione temporanea dagli affanni della vita e non è abbastanza forte da farci dimenticare la nostra reale miseria» (ibid., p. 572).

 

Piera Aulagnier, René Kaës: contratto e garanti
Nel discorso teorico fin qui esposto è ineludibile l'intreccio che unisce il mondo interno, le rappresentazioni, gli affetti, le pulsioni, alla realtà esterna. La situazione antropologica fondamentale (Laplanche 2007) all'assoluta presenza dell'Altro.
La Aulagnier e Kaës, psicoanalisti della scuola francese su cui ora brevemente mi soffermo, quale elemento determinante della psiche, accanto ed oltre la triangolarità edipica, la conflittualità del sentire della posizione depressiva e l'area terza dello spazio transizionale, chiamano in causa i legami intersoggettivi e gli investimenti consci, le correnti sotterranee, inconsce, che li attraversano.
Sulla scia della tesi di Darwin, Freud in Totem e tabù ha presentato un'immaginaria ricostruzione della svolta che permise all'orda primordiale, insanguinata dall'uccisione del padre e dalle successive lotte fratricide, di instaurare un primo nucleo di convivenza, di sottoscrive il patto che legava i membri nel vincolo di non uccidere l'animale totemico, di non uccidere il fratello e di non avere rapporti sessuali con le donne del proprio clan.
Atto di nascita dell'aggregazione sociale, primo canovaccio legislativo che ha aperto il mammifero uomo a considerazioni relative all'Altro, ad affiancare al principio di piacere il principio di realtà e a sottostare ad interdetti limitanti l'agire. Griglie comportamentali che, interiorizzate nel corso dei millenni, hanno poi guidato l'Io a riservare per sé, uno spazio di progettualità, aprirsi ad interessi non connessi alla mera sopravvivenza (Ideale dell'io) e, nella misura in cui si rendeva responsabile delle sue pulsioni e dei desideri ostili verso la comunità, a sottomettersi agli interdetti stipulati dal gruppo e, grazie alla funzione di auto-osservazione riflessiva, a virare la colpa in senso di colpa.
Pieghe, spessori di vita emotiva poi trasmessi dalla catena delle generazioni, perché, come scrive Freud:
«Se i processi psichici di una generazione non si prolungassero nella generazione successiva, ogni generazione dovrebbe acquisire ex novo il proprio atteggiamento verso l'esistenza, e non vi sarebbe in questo campo nessun progresso e in sostanza nessuna evoluzione» (1913, p. 161).
Con sullo sfondo questo mitico affresco, con un salto di milioni di anni, volgo l'attenzione ad un aspetto del pensiero che la Aulagnier espone ne La violenza dell'interpretazione. L'essere umano è frutto dell'incontro psiche-mondo. Incontro che, dopo la prima sommaria rappresentazione pittografica e la tesi autogenerativa del processo originario, si apre al processo primario e poi al secondario. Elaborata articolazione di pensiero che la mente è chiamata a compiere per uscire dal caos del sentire originario e giungere ad una più appropriata ricostruzione degli eventi. A districare i fili che intrecciano il vivere e, in un unicum, connettono il biologico, lo psichico e la comunità umana.
La madre nutre l'infans, con il cibo infonde sensazioni, stati d'animo che poi avranno il nome di affetti e desideri; il suo sguardo, la sua parola, rêverie e funzione alpha, placano i bisogni, li dota di senso e trasmette al piccolo i suoi sentimenti. Mette in comunicazione due spazi psichici.
«Psiche e mondo si incontrano e nascono l'uno con l'altro e l'uno mediante l'altro, essi sono il risultato di uno stato di incontro che abbiamo sostenuto essere coestensivo allo stato di esistente» (Aulagnier 1975, 65).
La madre è voce, porta-parola, di investimenti, aspettative. Di desideri intimi, esigenze, attese sociali che schizzano sul piccolo i tratti delle sue aspettative, dei suoi sogni; nel piccolo - che non può evitare di misurarsi con questa immagine, con questo pre - la messa in moto dell'organizzazione pittografica, all'autofigurarsi intreccia la presenza dell'altro e le attese, l'ombra che questi riversa su di lui.
«Molto prima della nascita del soggetto gli preesiste un discorso che lo riguarda: una sorta di ombra parlata […] che, non appena l'infans è lì, si proietterà sul suo corpo e prenderà il posto di colui al quale si indirizzerà il discorso del porta-parola» (ibid., p. 161). La realtà/mondo che la psiche incontra è il corpo e, accanto ad esso, le persone che - con il turbinio del loro sentire psico-fisico, delle loro aspettative consce e inconsce - gli sono accanto e, alle loro spalle, la comunità e i suoi valori etici e culturali. Con le cure, i genitori aiutano il neonato a superare i lunghi mesi della sua totale dipendenza; con esse, assieme alla loro dedizione e affettività, trasmettano il pulsare del loro inconscio, la qualità/quantità del loro fantasticare e della rimozione della loro sessualità infantile.
Introducono il nuovo nato nel mondo della parola e tracciano il testo latente su cui si inscrive la sua sessualità.
La relazione che li unisce è un tassello di un puzzle di un complesso, fragile affresco Io/Altro/Altri/acquisizioni culturali e societarie, che chiede continua, attenta salvaguardia. Ai primordi dell'umanità un patto ha legato i contraenti attorno alla sacralità del Totem, nelle odierne società un silente, fondante contratto narcisistico - conquistato in millenni di lotte, rivendicazioni, rivoluzioni - lega l'insieme sociale alla nuova vita e questa al sociale.
Il contratto narcisistico chiede alla catena generazionale e alle istituzioni di pre- investire sul nascituro, di riconoscere in lui la voce futura che prenderà il posto che gli è stato attribuito. Di sostenerlo negli anni cruciali in cui, superata la conflittualità edipica, riconosciuto il ruolo del padre e la castrazione11 simbolica, non più relegato entro il solo discorso familiare, relativizza i 'valori' parentali, volge l'attenzione al fuori e a nuovi ideali identificatori. Al nuovo nato chiede di investire lo spazio socio/culturale in cui gli è dato vivere, intrecciare la sua voce a quella degli uomini e delle donne del suo tempo. Contribuire al patrimonio culturale, sociale e politico e poi trasmetterlo a coloro che verranno dopo di lui. Contratto che assicura l'identità e la continuità delle relazioni fra i suoi componenti, valorizza l'investimento del gruppo sul soggetto e del soggetto sul gruppo e lega le parti.
Il soggetto, in cambio della quota di narcisismo che distoglie da sé e trasferisce sul sociale, chiede che «gli venga garantito il diritto ad occupare un posto indipendente dal solo verdetto genitoriale» (ibid., p. 214), che gli sia assicurato uno spazio di azione, di pensiero, di illusione, gli sia concessa la possibilità di conseguire un suo progetto identificatorio (l'autocostruzione dell'Io da parte dell'Io) e una relativa autonomia.
La comunità - nella misura in cui accoglie queste esigenze, si fa sensibile alle richieste delle nuove generazioni e fa spazio al conflitto, inevitabile e necessario che le contrappone - vede i propri figli farsi padri e madri della storia che hanno loro consegnato e ad essa aggiungere pagine nuove.
Qualora il contratto si sfalda, ora a causa delle peculiarità della coppia, ora delle ingiunzioni imposte al bambino, ora per rigetto e diniego di gruppi sociali e/o di altri valori, o a causa di meri, egoistici interessi di parte, la «posizione di esclusione, di sfruttamento o di vittima che la società ha potuto effettivamente imporre alla coppia o al bambino» (ibid., p. 216), incide nella psiche rivoli di malessere che attraverseranno più generazioni. Inscrizioni di dolore, collasso tra la realtà storica e l'elaborazione fantasmatica. Violenta collusione, improprio annodamento tra i due registri che rende difficile sostituire il fantasma con una messa-in-senso che lo relativizzi; operare un corretto equilibrio tra identificazione e delimitazione, differenziare il passato dal presente e dal futuro.
René Kaës, teoricamente vicino alla Aulagnier, arricchito dall'esperienza di terapia di gruppo condotta con il maestro/amico Didier Anzieu, fonda la formazione della realtà psichica su una doppia determinazione: una interna, intrapsichica, originata da affetti, rappresentazioni, pulsioni, conflitti desideri/difesa, piacere/dispiacere; l'altra esterna, connessa ai progetti e ai traumi delle generazioni dei padri, ai gruppi, alla comunità e alla cultura.
Punto nodale della sua architettura concettuale è l'interrelazione che articola la pluralità degli spazi psichici – individuale, intersoggettivo, sociale e culturale - con la trama di 'alleanze inconsce' che li sottendono. Kaës si fa corifeo di una realtà psichica quale prodotto dell'articolazione - dinamica e reciprocamente interferente - della strutturazione del mondo interno del soggetto con il mondo interno dei soggetti del gruppo - coppia, famiglia, gruppi – e dello spazio della cultura.
In conformità a quanto aveva sostenuto Freud nel saggio Il narcisismo, le relazioni primarie sono per Kaës le figure di riferimento che assolvono la fondante funzione di appoggio, di deposito. Ponte-legame, le cui arcate sorreggono l'inscrizione della realtà psichica, che, oltre che nel recinto intrapsichico, si articola negli spazi intersoggettivi, nei rapporti consci e inconsci con lo spazio psichico comune e condiviso da più soggetti; con il lavoro psichico che l'incontro con la soggettività dell'Altro impone, con l'interiorizzazione dell'oggetto e la relazione che con esso si declina. Per Kaës, come per la Aulagnier, il legame è fin dall'inizio soggettivo e intersoggettivo. È incontro genitori/infans. È relazione di appoggio reciproco Io/ Altro/Altri. C'è sempre un Altro, più Altri, dentro ogni persona, non si è mai 'uno'. Scrive Kaës al riguardo: «La nostra concezione endogena della psiche non può più disconoscere le condizioni al tempo stesso culturali e intersoggettive – e in parte extratopiche - della vita psichica» (2005, p. 57). «[...] accanto al conflitto intrapsichico di derivazione psicosessuale infantile, esiste un conflitto inconscio tra il soggetto e la parte della sua psiche detenuta da un altro (o da più di un altro) o depositata in lui (in loro)» (Kaës 2007, p. 259).
La strada del divenire Io, sempre popolata dall'Altro, da più Altri, si snoda all'interno di relazioni intersoggettive, cioè all'interno dello spazio psichico proprio del legame e dell'inquadramento che ha come orizzonti di riferimento i garanti metasociali (miti e ideologie, credenze e religione, autorità e gerarchia) e metapsichici (interdizioni fondamentali, i contratti intersoggettivi, il contratto narcisistico). Le incrinature, le disorganizzazioni e le ricomposizioni di uno di essi ricadono, con effetto domino, sugli altri.
«[...] la violenza sociale e individuale, l’esclusione, i comportamenti devianti e marginali sono le espressioni manifeste della crisi dei garanti metasociali e, di conseguenza, dei progetti sufficientemente condivisibili per costituire il vettore di una dinamica sociale creatrice di nuovi processi di socializzazione. [La dinamica sociale...] è minacciata dalla instabilità delle sue basi, delle fratture dei ricettacoli, ordinariamente silenziosi, che inquadrano e sostengono i processi del suo sviluppo» (Kaës 2005, p. 59).
L'intersoggettività è correlazione; è unione/disgiunzione, identificazione/delimitazione, conformità/dissonanza, permanenza/cambiamento, articolazione tra i processi psichici propri allo spazio psichico che unisce i soggetti e questi al circuito etico/culturale/sociale, alle rete di funzioni e di valori di riferimento della comunità. È relazione tra gli individui e il metasociale che chiede di non uccidere, di non commettere incesto e di rinunciare alla realizzazione immediata dei moti pulsionale. È relazione tra il metasociale e il metapsichico; relazione che intreccia le funzioni metapsichiche collocate nel profondo della vita psichica e tra questa e gli spazi più ampi – culturali, sociali, politici, religiosi (Kaës 2007).
Intersoggettività, ponte/legame, investimento elettivo degli uni con gli altri ove si decantano le appartenenze comunitarie e le credenze comunitarie; ove germogliano le identificazioni e le alleanze inconsce e consce che rafforzano i legami di gruppo, di famiglia di coppia. Intersoggettività che, quale cemento della realtà psichica, lega gli uni agli altri e rafforza le basi degli investimenti narcisistici e oggettuali:
«Le alleanze inconsce sono implicate nei processi di formazione dell'inconscio nella misura in cui una parte dell'inconscio dell'altro (o di più di un altro) ritorna nella formazione dell'inconscio del soggetto» (ibid., 256).
Delicato equilibrio che connette, o meno, il mondo interno al mondo esterno; lega, o slega, l'individuo al gruppo. Legami o slegamenti che Kaës connette a tre grandi categorie di alleanze. Le alleanze strutturanti12 che si fondano sulla rimozione, facilitano il pensiero e tessono significative configurazioni relazionali; quelle difensive che - basate sul diniego, il rigetto dei limiti, dei tabù, della realtà e dell’alterità - producono effetti perversi e destrutturano l’iscrizione del soggetto nella catena generazionale e, infine, le alleanza offensive, pronte – come sappiamo - a suonare i tamburi di guerra.
Si comprende allora la straniante inquietudine, l'impregnazione cupa, melanconica, o all'opposto maniacale e onnipotente, di soggetti immersi nella rete individuo-società- cultura lasca e difettosa, tra le cui maglie si disperde il senso del limite, ove ogni affermazione si rivela uguale al suo opposto, ove si rendono impercettibili le frontiere tra Io psichico ed Io corporeo. Defaillance, non incontro, a volte scontro - tra istituzioni e individui, tra i garanti metasociali e metapsichici dello spazio psichico individuale - che annebbia l'attività di simbolizzazione e di sublimazione con dirette ricadute sul lavoro del preconscio, cioè sulla capacità di associare e pensare. Leggo da Kaës:
«Ciò che assicura una funzione simbolizzante e mediatrice è la credenza nella virtù dell'oggetto e questa credenza ha un duplice fondamento: nella psiche dell'altro e nella psiche del soggetto. Nessuna mediazione è produttrice di effetto di crescita psichica se non è prima presentata da un soggetto a un altro soggetto e solo allora inventata-creata dall'uno e dall'altro in questo accompagnamento reciproco» (2013, p. 211).
Nei primi anni del XIX secolo, Freud aveva supposto una non dissimile relazione tra i modelli educativi/comportamentali e il disagio psichico:
«Chi – scrive - conosce fino in fondo i fattori che determinano le malattie nervose, ben presto giunge alla convinzione che l'aumento di tali malattie nella nostra società dipende dalle accresciute limitazioni sessuali» (1908, p. 422). E, poco oltre: «In generale, io non ho avuto l'impressione che l'astinenza sessuale giovi a formare uomini d'azione energici e indipendenti o pensatori originali, né audaci liberatori e riformatori, bensì che essa formi molto più frequentemente dei codardi perbene, che più tardi sprofondano nella grande massa, la quale suole seguire con riluttanza l'incitamento che proviene da forti individualità» (ibid., p. 424). E ancora: «Ritengo al contrario che l'indubbia inferiorità intellettuale di tante donne sia da imputarsi all'inibizione di pensare necessaria per la repressione sessuale» (ibid.,425,6)13.


1Freud teorizzerà il complesso d'Edipo nel 1922 ne l'Io e l'Es.

2Per Freud, sia nella prima sia nella seconda topica, l'Io è il frutto di una autogenesi. Nella prima, come esplicita in Due principi dell'apparato psichico, l'Io è determinato dall'azione dell'ambiente, nella seconda è una parte dell'Es che lentamente si differenzia, a salvaguardia «delle pretese pulsionali dell'Es» (1938, p. 599).

3Freud abbatte il discrimine salute/malattia allorché - come testimonia la lettera del 21 settembre 1897 inviata a Fliess – afferma che non sono necessari e determinanti né i fattori organici, né gli eventi reali più o meno traumatici in quanto le pulsioni e la vita fantasmatica possono essere patogene di per sé. Cade la tesi dei «neurotica» che fino ad allora aveva sostenuto e, al riguardo, scrive: «Certo non andrò a raccontarlo a Dan e neppure ne parlerò ad Escalon, nella terra dei Filistei, tuttavia i tuoi occhi e ai miei avverto più la sensazione di un trionfo che di una sconfitta» (1986, p. 298).

4Con il termine «pittogramma» Piera Aulagnier definisce la prima rappresentazione mentale, sepolta nell'inconscio, propria del processo originario, processo che funziona con il postulato dell'auto generazione. La rappresentazione pittografica che gli è propria ignora la dualità bocca/seno che la compone. Il rappresentato, il seno, appare alla psiche come una sua creazione.

5Mi riferisco al 'processo originario' che evolve nel 'processo primario' e poi nel 'processo secondario' quale presentato da Piera Aulagnier (1975).

6 Winnicott (1968) con «uso» dell'oggetto intende l'arduo percorso che ogni nato deve compiere per transitare da «l'essere in rapporto» con l'oggetto soggettivamente rappresentato, cioè oggetto soggettivo, carico di proiezioni e l'«uso dell'oggetto». Cioè relazione con un oggetto che esiste indipendentemente dal soggetto. Con l'oggetto che è fuori dell'area di controllo onnipotente, oggetto esterno a sé, che esiste per se stesso, non è una entità proiettiva del soggetto. Il soggetto non ha pertanto alcun potere sull'oggetto.

7Per la Klein la fantasia costituisce la sostanza, la base di tutti i processi mentali, il canovaccio in cui si inscrivono.

8Winnicott, chiama doppia dipendenza, lo stato in cui la dipendenza è assoluta perché l'ambiente non è percepito.

9Scrive Winnicott: «All'inizio l'individuo non costituisce l'unità. L'unità è la struttura individuo-ambiente che percepiamo dall'esterno» (1975, p. 267).

10Occorre non confondere l'illusione, con l'illusorio. L'illusione di Winnicott, credo sia vicina al Il principio speranza di Ernst Bloch. Per Bloch la speranza è superiore all'aver paura, non è né passiva come questo sentimento né, bloccata nel nulla. L'illusione di Winnicott è madre della creatività.

11Riporto questa puntuale messa a fuoco della castrazione: «La castrazione può essere definita come la scoperta, nel registro identificatorio, di non avere mai occupato il posto che si era creduto proprio e che, al contrario, si presumeva di occupare un posto nel quale non si poteva ancora essere» (Aulagnier, 1975, pp. 222-223).

12Sono alleanze strutturanti le alleanze che fondono il contratto di rinuncia alla realizzazione diretta delle mete.  pulsionali, il contratto con la funzione paterna, riconoscimento delle leggi, e il contatto narcisistico.

13Su questo argomento in Il malessere, nel 2013, Kaës scrive: «In questi casi non abbiamo più solo a che fare con l'eccesso della repressione culturale e sociale della pulsionalità, ma simultaneamente - e più spesso oggi – con una carenza della costrizione o con un eccesso di lassismo, espressione della crisi delle metacornici, sintomi di malessere» (p. 173).

 

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