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Sara Rottoli. Bruce Nauman. Neons Corridors Rooms

 

Rottoli1Figura 1 Bruce Nauman “Neons Corridors Rooms”
Exhibition view at PirelliHangar Bicocca, 2022 – Photo: Agostino Osio

 

Sara Rottoli*

«[] la realtà di una notte, e anzi neppure quella di un’intera vita umana,

non significano, al tempo stesso, anche la loro più profonda verità».

«E nessun sogno» disse egli con un leggero sospiro «è interamente sogno».

A. Schnitzler, Doppio sogno

The true artist helps the word by revealing mystic truths (1967).

Ampie pareti dal colore scuro uniforme fanno da sfondo ad un’esperienza immersiva, cui si accede nel più naturale – eppure al contempo inconsueto – dei modi. Del resto, bastava voltare l’angolo. Procedere attraverso il breve disimpegno in cartongesso, su cui sono affisse delle annotazioni tanto meticolose e ridondanti da indurmi a lasciarvici scivolare il capo, con la spinta ad incamminarmi oltre. Passi lenti su lastre in calcestruzzo grezzo. Pensavo, inconsapevolmente, che solo oltre avrei trovato l’inizio, se a questa parola mi è lecito attribuire la parvenza di una precoce e ricercata chiarezza. Dove ha inizio la mostra?

È bastato semplicemente voltare l’angolo, affinché mi trovassi dentro ad una sorta di labirinto, di cui avrei attraversato corridoi e stanze. Nel buio della notte, Dedalo mi esortava a seguire un complesso crocevia di segnali, dalla cui luminosità in contrasto – e contrastata – si dipana un effetto confondente. Spesse fondamenta e un soffitto lontano, manto imperfetto dalle intelaiature tipicamente industriali, caratterizzano la sede di un’area espositiva di arte contemporanea internazionale (Figura 1). Fuori una calda giornata di fine autunno, da cui mi ero ritirata prima che il sole lasciasse spazio all’avvenire della sera. Non saprei dire in quanti eravamo, né chi: appassionati, curiosi, artisti fors’anche. Corpi quasi ammassati in entrata, accomunati dallo stesso avanzare lento, ugualmente destinati a (dis)perderci a distanza di qualche passo soltanto.

Mi fermo. Eccomi di nuovo in un angolo, aperto su uno spazio in cui elementari componenti acromatiche si incontrano l’una con l’altra. Lascio che sia lo sguardo a muoversi al posto mio, ad avventurarsi alla ricerca di un punto verso cui dirigermi. L’inconsueto vuole che in parte retroceda e ruoti su me stessa, per trovare affissa a mezz’aria una scritta al neon dall’andatura spiraliforme (Figura 2). Parole blu contornate da linee rosse dominano la navata centrale. Un’affermazione, forse, con cui Nauman intende esaltare il ruolo dell’Artista, possessore di una verità sconosciuta ai più? Privilegiati, dunque, coloro i quali riusciranno ad accogliere la sua esortazione, lasciandosi condurre per i labirinti dell’Arte, nel cui mistico pare purtuttavia insito un monito?

Rottoli2Figura 2 Bruce Nauman “The true artist helps the word by revealing mystic truths” (1967)
Photo: Agostino Osio

Luci al neon. Giallo, soprattutto il giallo. Rosso, bianco, verde. Poi tutto rosso. Bianco. Flussi di colore intenso corrono tra le pareti dei corridoi, attirando a sé il visitatore. Se da fuori la vista ha potuto incontrare delle semplici pareti spoglie, ciò di cui fa esperienza internamente è una luminosità preziosa, in grado di innescare il desiderio e nel medesimo istante indurre la mente a soggiacervi – con il solo gioco dei sensi. Il mio corpo è inondato da luce fluorescente, tale da rendere gialle le mura e il soffitto, così come i volti e gli indumenti di coloro che vi si immergono – un unico colore, tante gradazioni (Figura 3). Ci si ritrova soli lungo le silenziose traiettorie dei corridoi monocromatici al neon, percorribili esclusivamente per parte della loro intera estensione nel Dream Passage with Four Corridors (1984). Non che di spazio non ve ne sia a sufficienza in quelle costruzioni disposte in modo perfettamente perpendicolare, entro cui vige tutt’al più una regola tacita, in virtù della quale spettatore dopo spettatore ci si succede l’un con l’altro.

Per quanto pervasivo, inizialmente non ho avvertito il neon come una presenza invadente. Al contrario, è prevalsa in me la tentazione di lasciarmi ipnotizzare da quell’atmosfera onirica, a costo di esservi tratta in inganno. Indubbiamente non posso dire di essere stata tanto disinvolta quanto Nauman, in quell’alternanza di chiasmi con cui l’ho poi visto avanzare lungo un corridoio, nella sequenza scenografica riprodotta su un vecchio schermo. In Walk with Contrapposto (1968) l’artista cammina posando ossessivamente un piede di fronte l’altro, mentre enfatizza al massimo con gambe e braccia le potenzialità del movimento corporeo entro i confini limitati di una delle sue prime installazioni. Avanti e indietro, poi ancora avanti e indietro, avanti e indietro.

Rottoli3Figura 3 Bruce Nauman “Dream Passage with Four
Corridors” (1984) – Photo: Agostino Osio

Procedo adagio, con le spalle leggermente ricurve in avanti e le mani ben salde al manico della borsetta, avendo cura di non farla rimbalzare di continuo sulle ginocchia, né di toccare nulla di ciò che fino a un attimo prima sembrava esser bianco. Una volta arrivata in fondo – o forse dovrei dire nel mezzo – mi concedo di accedere con il tatto, non più solamente con la vista. Una sbarra orizzontale a livello del bacino mi impedisce di proseguire, ma non di sporgermi verso una piccola sala centrale, punto di congiunzione dei corridoi, in cui sono allestiti sottosopra uno – o forse dovrei dire due – tavoli con sedie in metallo disposti in modo asimmetrico. In basso, come in alto, degli stretti tubi a vista contornano la geometria volutamente sfalsata di un luogo sospeso e senza tempo: lampade gialle, bianche e rosse. Luci fisse, che non emanano calore alcuno; materiali lisci, che non trasmettono al tatto la loro naturale freschezza. Eppure trapela una qualche famigliarità recondita, tra i graffi che si scorgono in controluce su una superficie illusoriamente vissuta e gli antenati delle insegne luminose che a partire dal XX secolo avrebbero animato i viali delle grandi città. A traspormi, dal corridoio alla stanza, un sentimento perturbante sta prendendo forma in me (Freud, 1919). Dove mi trovo? Per quali vie sono stata condotta?

Sarebbe improprio affermare che vi sia uscita, ovunque io fossi. Mi abbandono, passiva, ad una condizione primitiva di impotenza rispetto ad un ambiente ora cremisi, in cui sopraggiunge, flebile, un sentimento di angoscia. I corridoi, lungi dall’essere uno strumento di passaggio unidirezionale, mi hanno transitoriamente fatta retrocedere ad uno stato di non-integrazione. Come una bambina che per la prima volta apre gli occhi sul mondo, ove il colore rosso irrompe fra macchie sfocate di luce ed ombra, cerco freneticamente in mezzo al tutto un oggetto che si presti ad essere realmente sperimentato. Qualcosa che mi contenga; che mi sorregga, stabile sulle mie gambe; che mi permetta di riavere il contatto con me stessa. Una luce – nella luce? – una voce, un odore o un altro oggetto sensibile, che possa divenir pelle (Bick, 1968; Ogden, 1989). Spettatrice soggetto-oggetto dell’opera d’arte, in un vissuto fusionale con la stessa. Il rosso si erige ad esperienza totalizzante, nella quale non mi è più possibile distinguere il bianco dal nero. Chi sono io? Quali i miei colori?

Ricomincio dal corpo. Dinnanzi ad un passaggio particolarmente stretto ed elevato, strutturato in assi e contrafforti lignei, mi si è imposto lo sforzo necessario di osservare la mia corporatura dal di fuori (Figura 4). Prima di addentrarmi nel Green Light Corridor (1970) ho dovuto prendere una decisione, origine del mio progressivo rallentare in prossimità del neon, come accuratamente progettato dall’artista. Mi posiziono di sbieco, con il piede sinistro alla guida e il destro destinato a trascinarsi per alcuni metri; dritta con il busto, riesco a passarci appena.

È incontrando corridoi, tunnel e spazi sempre più inarrivabili che mi accorgo di come la mente non si arrenda all’impossibilità di accedere ad un luogo reale – esistente nella realtà – anche laddove il corpo si trova costretto a desistervi. Piuttosto, il pensiero costruisce da sé altre vie percorribili, nel suo insaziabile bisogno di sognare l’esperienza vissuta (Ogden, 2016). E se, nonostante tutto, passare attraverso i “Corridors” non mi stesse conducendo da nessuna parte? Dove sono diretta, qualora mi sia consentito scegliere?

Il confine fra esterno ed interno è divenuto ancor più labile, dopo essermi allontanata dalle pareti sature di luce verde. Non si tratta esclusivamente di confini corporei, entro cui delimitare ciò che è fuori da ciò che è dentro di me, laddove la costrizione del corpo ha ceduto il posto ad una silenziosa e serrata invasione. Rispetto ai confini spaziali, può risultare similmente complesso comprendere se in un dato momento ci si trovi al di fuori o al di dentroche cosa? L’istallazione, il labirinto, l’opera d’arte, la mostra…o, ancora una volta, sé stessi? Ogni cosa tutt’intorno, per quanto nella fantasia di un duplice spazio, è inspiegabilmente divenuta rossa. Rimango sospesa in uno stato inebriante.

Rottoli4Figura 4 Bruce Nauman “Green Light Corridor” (1970)
Exhibition view at PirelliHangar Bicocca, 2022 – Photo: Agostino Osio

In una stanza angusta e semibuia riecheggia, con moto ossessivo, un imperativo forte e chiaro. Una voce maschile, affaticata nella sua ostinatezza, suscettibile a diverse intonazioni, ingravescente, mai dubitante. Questione di un attimo e non riesco già più a liberarmene, quasi fossi io ad essermi inserita violentemente nel mondo interno, vuoto, di un’altra persona. Nel luogo mentale in cui mi ritrovo, una lampadina appesa con un cavo a vista si sforza di mantenere in vita una luce fioca, pallida. La voce si ripete in un’assidua richiesta di aiuto, sebbene chi la pronunci paia avvertire un forte bisogno di sopprimerne il grido – illudendosi forse, in tal modo, di riuscire a porre fine alla propria sofferenza psichica.

L’insegna, affissa alla parete esterna, riportava a chiare lettere una trascrizione di quanto ho udito immediatamente dopo: Get Out of My Mind, Get Out of This Room (1968). Paradossalmente, una freccia in grassetto, al di sotto della stessa, implorava chiunque di entrarvi. Attrazione e repulsione. Resto per qualche istante in balia di un controllo onnipotente, che sento esercitare su di me alla stregua di un oggetto mancante andato perduto e ora rifiutato, disprezzato, annullato (McWilliams, 2011; Ogden, 2016). Le frasi preregistrate rimbombano tra le quattro mura cubiformi. Il loro rimbalzare, continuo e incontrollato, in tutte le direzioni esercita su di me un effetto profondamente destabilizzante. Sento soffocare la mia voce interiore, nel suo voler urlare basta. Bramo uno spiraglio di quiete, che mi liberi da quell’incessante turbinio mentale, in cui sono rimasti incagliati i miei pensieri; il mio corpo, ormai, quasi appiattito contro la parete. Da dove uscire e come?

Una porta, la stessa di prima – quasi il silenzio.
Un altro corridoio – quasi, di nuovo, il bianco (Figura 5). Sono intercorsi solamente pochi passi, a seguito dei quali han fatto ritorno anche le costruzioni sfalsate, destinate a distorcere ogni tentativo di pura simmetria, fino ad indurmi a rinunciare alla ricerca di forme dalla consolidata perfezione. Si è innalzato un nuovo tunnel ad imbuto sulla mia via, nel mezzo del quale si aprono due varchi dirimpetto l’uno con l’altro. Sulla destra, la struttura presenta una base triangolare isoscele; sulla sinistra, il perimetro è quello di un triangolo scaleno. Non me ne ero nemmeno accorta, mentre passeggiavo con aria apparentemente calma e disinteressata per le stanze, se non dopo aver fatto ritorno al corridoio centrale con l’intento di mettere a fuoco la prospettiva in chiaroscuro con lo smartphone. Conservo diversi scatti fotografici di questa Experience – tentativi convenzionali di catturare, invano, il momento con delle sequenze di immagini, quando a rendere vivido ancora oggi il ricordo è stato invece il vissuto emozionale ed introspettivo dell’attraversare e dell’essere attraversata a mia volta.

Rottoli5Figura 5 Bruce Nauman “False Silence” (1975)
Photo: Sara Rottoli

 C’è anche qui una voce – non si vede. Nauman adopera la sua stessa voce alla stregua di un mezzo per congiungere lo spettatore all’arte, rendendolo più che partecipe. Non riesco ad afferrare su un piano meramente linguistico e razionale ciò che l’uomo intende comunicare, finché non arrivo in fondo all’imbuto, dove le frasi giungono alle mie orecchie sottoforma di un lento e ripetuto sussurro. È come se per comprendere a fondo – poiché è in profondità che si viene condotti – il significato di False Silence (1975) dovessi necessariamente fruire dell’opera stessa, abbracciandola nella sua totalità. Non c’è altro modo per accogliere l’agonia di quella voce senza corpo, se non spingersi oltre il ruolo stereotipato del visitatore. Il tono è assopito, spento, eppure dai visceri sento risvegliarsi il sentimento di angoscia di cui prima. Mi pongo in ascolto, silenziosa, dei pensieri di una persona che dubita della sua umanità, del suo stesso esistere: “Non sudo/non ho odore/non inalo, non esalo/non urino…” – espressioni di una limitazione inconscia della capacità di percepirsi pienamente vivo come essere umano (Ogden, 1997).

Lo spazio muta di continuo nel mio percepirne forme e ampiezze, mentre mi muovo tra le geografie del dentro, fuori e attorno. Viceversa, talvolta è altresì ciò che mi si pone dinnanzi a cambiare connotazione con l’accensione e lo spegnimento di luci antitetiche nel contenuto, non solo tra le alternanze di luci ed ombre (Figura 6).

Rottoli6

Figura 6 Bruce Nauman “One Hundred Live and Die” (1984)
Photo: Sara Rottoli

Un centinaio di insegne al neon disposte su quattro colonne si illuminano l’una dopo l’altra, seguendo un ordine casuale. Poi la prima e la terza colonna, tutte insieme. Infine, tutte, tutte insieme. Frasi semplici, disposte secondo una struttura ripetitiva e comune: vivere o morire, sono i verbi che aprono ciascuna di esse, a cui sono congiunti altri verbi, nomi, aggettivi. Mi riesce complesso descrivere il gioco linguistico con cui sono entrata in relazione in One Hundred Live and Die (1984). Il murale diviene arte – viene ad essere – con il ravvivarsi di ciascun punto di colore, nell’arco di qualche minuto. Non mi è consentito leggere riga per riga, né colonna per colonna. Né attribuire una qualche linearità interna a ciascun enunciato, nel quale and non designa un rapporto di causalità, né di temporalità, né di compossibilità. Le suggestioni del momento mi fanno propendere quanto più per degli imperativi – una scarna semplificazione dell’esistenza umana, del fare cui l’umanità è condannata.

Disorientata e aperta all’eventualità di incorrere in qualcosa che sia altro, seppure nella ripetizione di avvenimenti consimili, mi lascio avvolgere da quell’emozione di attesa, in cui si fa strada cionondimeno un senso di impotenza e turbamento (Freud, 1919).

Mi affaccio esitante su un corridoio all’apparenza più agevole dei precedenti, per via dell’apertura ampia quanto basta da lasciarvi filtrare la luce, seppure in un misterioso vortice di penombre. D’altra parte, è risaputo come si entri con fin troppa facilità in un labirinto, salvo tuttavia scoprirsi ancora una volta in un lento avanzare nell’ombra. Corridoio: der. di correre, propr. luogo dove – non! – si corre[[1]]; parola primordiale che – in “Neons Corridors Rooms” – si presta ad un vissuto dal significato opposto, parafrasando il titolo di un breve scritto di Freud (1910) dedicato al linguaggio. E con Freud si potrebbe affermare che, poiché non ci sarebbe stato possibile concepire il concetto di un movimento tanto veloce e libero come l’atto di correre, se non in contrapposizione all’esperienza di qualcosa che ci frena e ci costringe a rimanere immobili, allora la parola corridoio non può che conservare in sé questo antico ricordo.

Sul fondo, all’origine del bivio, è disposta una parete a specchio – da cui il nome Corridor Installation with Mirror (1970). Spaesata e oppressa, non solo dal progressivo restringimento delle pareti, ad un certo punto mi accorgo di non essere io la persona che vi è riflessa, comparsa all’improvviso – foss’anche nel suo di avanzare lento. Lo specchio restituisce un’immagine altra, per certi versi oscura, riproducendo in sé lo spazio della corsia adiacente, di cui non sono la diretta protagonista. Quale sollievo, l’aver d’altro canto potuto ritrovare tra gli imbrogli di Dedalo una figura amica! Potervisi dunque specchiare in due, una volta avvicinatesi. Poter scegliere, nel bel mezzo della biforcazione, se retrocedere ognuna per la propria strada o permettere l’una all’altra un reciproco scambio di prospettiva – metafora di percorsi e incontri della vita più vera.

Specchi, telecamere, schermi. Mi muovo in avanti e indietro, di nuovo in avanti e indietro, per alcuni dei sei punti di (non-)passaggio di Corridor Installation (1970). Faticavo ad identificarmi, tra le proiezioni di sale in cui non compariva nessuno o qualcuno girato di spalle, quando invece ero certa di esserci io e nemmeno da sola – non per tutto il tempo, almeno. Sono io, qui e ora. Ho bisogno di abbassare lo sguardo ai piedi, alla ricerca di un angolo, una parete o un qualche altro segnale distintivo per accorgermi, guardinga, che c’è qualcun altro nel posto che sto occupando con tutta me stessa in questo preciso istante. Qualcuno che dev’esserci passato tempo prima e che ora mi sto sforzando di cercare, senza successo, ispezionando visivamente l’area circostante (Figura 7).

Rottoli7Figura 7 Bruce Nauman “Corridor Installation” (1970)
Exhibition view at PirelliHangar Bicocca, 2022 – Photo: Agostino Osio

Vecchi televisori posati al pavimento, contro le pareti, distorcono intenzionalmente lo spazio e il tempo, alterando la velocità delle riprese. Oggetti del passato, che nella mia memoria giacevano abbandonati in una stanza remota all’ultimo piano della casa dei nonni, in cui nessuno era mai entrato tanto spesso. Ogni tanto da bambina ci sgattaiolavo, furtiva, alla ricerca di qualche tesoro sepolto – reminiscenze fanciullesche di qualcosa che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato (Freud, 1919). Fantastico su quale possa essere stata, nella memoria dell’artista, l’esperienza infantile risvegliata da una forte impressione attuale, da cui è derivato il desiderio, appagato, in quest’opera (Freud, 1907). Avevo conservato il ricordo di quel segnale di trasmissione perennemente disturbato, dei colori sbiaditi e degli oggetti privi di contorni ben definiti. Le sequenze video rallentano e confondono chi osserva, quasi a voler invitare lo spettatore, incredulo, a guardare – a guardarsi – meglio, interrogandolo sul perché non riesca a riconoscervisi. Mi fletto su un fianco con il busto: sono stata proiettata capovolta lateralmente di 90°, con i piedi a sinistra e la testa a desta, in una gravità mezza rovesciata. Dov’è finito il cielo, ammesso che io abbia ancora i piedi per terra?

Sulla scia dell’immaginario fantastico di Nauman, sono stata trasportata in luoghi dove prevalgono altre logiche, altre forze gravitazionali, mondi governati da leggi di tutt’altra natura.

È datata 1968 la scultura al neon My Name as Though It Were Written on the Surface of the Moon, esposta al pubblico qualche mese prima che la grande impresa fosse Storia. In essa l’artista riproduce il proprio nome con un tubo sottile azzurrato, valorizzando in un crescendo ciascuno dei caratteri che lo compongono, come se idealmente fosse scritto su un altro pianeta – o lui stesso vi si trovasse lì a scriverlo. Il corsivo dalle tonalità cerulee evoca la sensazione di un soffio di vento, che attraversa leggero il groviglio di luce, riempiendo ciascuna lettera di un significato nuovo, per quanto sfuggevole – tant’è che, un anno dopo, la fantasia di un segno umano tracciato sulla Luna si sarebbe trasformata in realtà. L’insieme delle lettere assume la configurazione di un suono onomatopeico, eco di un luogo lontano: bbbbbbrrrrrruuuuuucccccceeeeee. «Un pensiero sognante senza la coscienza della propria destinazione, trascinato solo dalla forza del proprio movimento» (Pontalis, 2000).

Mi lascio percorrere da una gamma ambivalente di vissuti e sensazioni, tra luci stranianti, impedimenti corporei al limite del claustrofobico e sprazzi di piacere ludico.

Con un misto di curiosità e apprensione, mi sono avvicinata ad una gabbia in metallo dalle dimensioni imprecisate – ampia, stando alla distorsione cui è sottoposta la vista in lontananza, da cui pure avverto il sentore di un’illusione (Figura 8). Cercando di guardare attraverso la fitta maglia di pannelli, saldati in un’architettura minimalista, mi sono resa conto di come ancora una volta stessi facendo esperienza di uno luogo irraggiungibile fisicamente. Per quanto su di un lato sia stata predisposta una grata semiaperta, all’interno della gabbia è racchiusa una seconda gabbia, priva di alcuna apertura. Un blocco unico, sigillato e inaccessibile, attorno al quale si è venuta a creare una sorta di intercapedine angusta, estesa per l’intero perimetro. Da innocente spettatore a vulnerabile prigioniero, colui che si appresta ad accedere a Double Steel Cage Piece (1974) attira inevitabilmente a sé lo sguardo inquisitorio e giudicante dell’altro, in un’esperienza di disagio ed oppressione dalla connotazione sociale, non più solo fisica. Sono restia, persino nel premere le dita contro i piccoli rombi ricavati dagli intrecci del telaio. Non mi riesce per nulla difficile prefigurarmi a quali condizioni debba sottostare il mio corpo per imbattermi in una performance lungo questo passaggio obbligato, la cui percorrenza pare alquanto prevedibile, così come il punto di (non-)arrivo.

Immersa nel silenzio dei miei pensieri e in procinto di considerare conclusa la sosta davanti all’installazione, sono stata distratta dalla vivace presenza di alcuni piccoli spettatori. Forse, nel mio giacere immobile, ero soltanto in attesa di essere scossa. In un celebre scritto sull’arte e la letteratura, Freud (1907) paragona il bambino al poeta – all’artista – nell’atto di costruire con la fantasia un mondo proprio, o meglio, nel dare a proprio piacimento un nuovo assetto alle cose del mondo. Quei bambini non sembravano vedere la realtà per quello che era, secondo una visione strettamente oggettiva, seppure in fondo limitante – oltre che limitativa. Non percepivano le mie stesse sensazioni: erano così emozionati, esaltati nel loro immaginario libero ed innocente! In un attimo, il mio mondo emotivo aveva assunto altri colori, in cui del grigio freddo non era poi che rimasta un’impercettibile striatura. «Mamma, mamma!», esclama entusiasta una vocina da lontano, indicando con la mano proprio in quella direzione – un luogo felice, verso cui mettersi a correre. «Sì, adesso viene il papà», risponde una giovane donna prendendo posto vicino ad una parete con la carrozzina, in cui sta riposando ignaro un bimbo ancor più piccino. E una volta entrato un primo bambino con il padre, via che ne arriva subito un secondo a voler fare lo stesso – e io sono la terza, o il quarto visitatore.

La direzione è stata decisa da chi mi ha preceduta e non è ammessa alcuna inversione di marcia lungo il percorso, che seguiremo in senso antiorario; per quanto concerne l’orientamento corporeo, vale invece solo la seconda delle asserzioni. Rifletto sull’automatismo per cui noi adulti abbiamo disposto i nostri corpi in modo da voltare le spalle all’esterno e indirizzare lo sguardo all’interno della prigione, in una desolante esperienza del vuoto, che tale sarebbe rimasto. Il bambino, diversamente, si è immesso nella strettoia con la parte anteriore del corpo rivolta verso l’esterno e con grande spontaneità ha raggiunto la mamma, felice e appagato, ancor più in seguito agli elogi affettuosi di quest’ultima. Li osservo regalarsi un saluto e una risata, tra l’invito di costei ad esser coraggioso nel proseguire e quello del figlio a prendere parte ad un gioco condiviso. «Laddove ci sono fiducia e affidabilità si colloca uno spazio potenziale, che può divenire un’area di separazione senza limiti che il neonato, il bambino, l’adolescente o l’adulto possono creativamente riempire con il gioco e che, con il tempo, diviene godimento del patrimonio culturale», scrive Winnicott (1971). Le dita morbide e sottili, in un contatto pelle-a-pelle, si cercano al di là della rete dura e inflessibile, trasmettendo una sensazione di sicurezza, dolcezza ed intimità. Alternanza dialettica di unità e separatezza (Ogden, 1989).

 Rottoli8

Figura 8 Bruce Nauman “Double Steel Cage Piece” (1974)
Exhibition view at PirelliHangar Bicocca, 2022 – Photo: Agostino Osio

 

Il buio fuori dalla navata mi rende più inquieta di quanto non fossi al cospetto della prigione, luogo che giace interiorizzato nella mia mente.

Arte, colore – totalità. Sono restia ad accogliere l’invito di qualche sgabello solitario, disposto al centro della sala, a trattenermi per un tempo indeterminato. Mapping the Studio II with color shift, flip, flop, & flip/flop (2001): leggere il titolo mi è stato indispensabile per comprendere questo lavoro dal contenuto ad un primo impatto tanto oscuro e tenebroso, per quanto l’inquietudine non si sia affatto dissolta in una genuina limpidezza. All’apparenza fotografie, a guardare meglio proiezioni di riprese notturne effettuate dalle telecamere di sorveglianza dell’atelier di Nauman, nelle quali – affinando ancor di più i sensi – riesco ad intravedere dei piccoli movimenti e ad udire dei suoni ambientali disturbanti in sottofondo. Un ambiente virtuale terrificante, la cui dimensionalità è ricreata dalle ampie proiezioni di sequenze ribaltate, alterate cromaticamente in giallo, rosso, verde…blu, viola, nelle quali a dominare è il nero. Un’arte, che ha la pretesa di mostrarsi tale anche quando i luoghi abitati dell’artista paiono abbandonati, privi del suo operare vitale là ed allora. Un occhio da cui mi sento spiata, studiata a mia volta, mentre vengo fuorviata dalle macchie di colore. Mi assale la paura del buio.

Chissà se è il vento a soffiare tanto forte o se sono io a cercare in esso, con ostinazione, una forza contraria. Aria fresca, un’inspiegabile quiete. Rimango con il cappotto slacciato, accennando uno scambio di sorrisi silenziosi a chi è con me, fuori. Ci siamo ricongiunte, pronte a proseguire – a tornare. L’Hangar dà vita ad un paesaggio artistico che non conosce confini, rendendo ora la parete esterna parallela alla navata centrale asse portante di un corridoio sonoro, dove ci stiamo dirigendo con passo lento. Sul lato opposto, una siepe fitta ed irregolare. Qua e là, sono disposte delle casse audio.

In Raw Materials (2004) l’artista fa convergere un coro di registrazioni, sovrapposte le une alle altre, in un amalgama denso e contorto di voci. La prima che incontro è il susseguirsi ritmato di “Thank you”, in un ringraziamento che suona beffardo e perentorio, letteralmente schiaffato in faccia. Non trapela alcuna gratitudine dall’intonazione, che pare più quella di un insulto, mordace e aggressivo. In un’interpretazione di Stefano Bartezzaghi, «il tono è quello con cui il Minotauro potrebbe aver ringraziato Teseo di essere finalmente venuto a ucciderlo; o quello sarcastico con cui lo stesso Teseo potrebbe aver ringraziato dei suoi ormai passati servigi la miseranda Arianna, lasciandola addormentata sulla spiaggia di Nasso». Altri altoparlanti ripropongono molte delle opere in mostra, ponendole in dialogo fra loro. Spicca, fra le tante – di cui False Silence e Get Out of My Mind, Get Out of This Room – un ostinato e noncurante “OK, OK, OK”.

A tarda sera, mi ritrovo a ripensare alla scritta al neon che mi ha sorpresa, nella mia ingenuità, appena arrivata. All’annuncio di una rivelazione, che ora più che mai avverto come impalpabile, o meglio indescrivibile a parole – eppure rappresentabile. L’idea di una giornata diversa aveva portato me e le mie amiche a cedere alle lusinghe delle tante foto coloratissime comparse nei feed dei social nelle ultime settimane, in cui le luci al neon apparivano come pura esperienza estetica – divertente, oltretutto – ad uno sguardo superficiale. Con grande curiosità e aspettativa: andiamo!

Nauman non entra nel merito della verità, bensì ci gira attorno e fa girare attorno ad essa pure noi, conducendoci sino ai limiti inesplorati del reale. Un mondo caotico, scomodo, pieno di contraddizioni, paure e angosce, in cui a volte si sta stretti…ma dove ci si può abbandonare alla fantasia, giocare, sognare da svegli. Non c’era stata nessuna promessa a riguardo, forse rimasta impigliata tra le curve della spirale, e nemmeno un’autoproclamazione a vero artista – ma come dubitarne? In “Neons Corridors Rooms” ho trovato quanto di più vero sia riuscito a trasmettermi un percorso artistico, nel suo pormi in dialogo con me stessa e con il mondo. Non vicina, né lontana; non di fronte a contemplare la bellezza, né di lato ad ascoltare narrazioni – disposta a cambiare prospettiva, angolatura. Mi sono sentita parte integrante di un’esperienza umana. Viva, in un incessante flusso di emozioni.

Sara Rottoli

Allieva della Scuola di Specializzazione della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (S.I.P.P.). Sede di Milano

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Bibliografia

Bick E. (1968). L’esperienza della pelle nelle prime relazioni oggettuali. In: Bonaminio V. & Iaccarino B., (a cura di) L’osservazione diretta del bambino. Torino: Bollati Boringhieri, 1989.

Freud S. (1907). Il poeta e la fantasia. In: Opere, V. Torino: Bollati Boringhieri, 1989.

Freud S. (1910). Significato opposto delle parole primordiali. In: Opere, VI. Torino: Bollati Boringhieri, 1989.

Freud S. (1919). Il perturbante. In: Opere, IX. Torino: Bollati Boringhieri, 1989.

McWilliams N. (2011). La diagnosi psicoanalitica. Seconda edizione. Roma: Astrolabio, 2012.

Ogden T.H. (1989). Il limite primigenio dell’esperienza. Roma: Astrolabio, 1992.

Ogden T.H. (1997). Rêverie e interpretazione. Roma: Astrolabio, 1999.

Ogden T.H. (2016). Vite non vissute: Esperienze in psicoanalisi. Milano: Cortina Editore, 2016.

Pontalis J-B. (2000). Finestre. Roma: E/O, 2001.

Schnitzler A. (1926). Doppio sogno. Milano: Adelphi, 1977.

Winnicott, D.W. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando Editore, 2019.

 

Sitografia

Bartezzaghi S. (2022). Passeggiata in mostra con Stefano Bartezzaghi: Nei labirinti di Nauman, Milano, 10 novembre (https://pirellihangarbicocca.org/bubble/stefano-bartezzaghi-nei-labirinti-di-nauman/).

 

Fondazione Pirelli HangarBicocca, Milano.

Keywords: #corpo, #identità, #controllo, #linguaggio.

[*] Allieva del terzo anno della Scuola di Specializzazione e della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (S.I.P.P.) di Milano.

[[1]] www.treccani.it

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