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Giurita Zoena Intervista Lucia Vitiello sul libro "Tracce di pensiero nei solchi della Pandemia"

Le coautrici Lucia Vitiello, Psicologa e Psicoterapeuta Socia Ordinaria della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica dell’Infanzia e dell’Adolescenza SIΨIA, già professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione in “Psicologia del ciclo di vita” e presso il Corso di Laurea in Psicologia Università di Napoli Federico II, Francesca Cappuccio, Psicologa e Psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Psicoanalitica presso la Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica SIPP, impegnata presso la Rete Oncologica dell’Asl Salerno, Brigida Vergogna, Psicologa e Psicoterapeuta specialista in Psicologia Clinica, attiva presso il servizio di consultazione per Studenti Universitari del Centro di Ateneo “Sinapsi”, Maria Gabriella Zenone, Psicologa e Psicoterapeuta del Ciclo di Vita, dirigente psicologa della UOSM Napoli 1 Centro e referente per i pazienti ristretti presso la C.C. di Poggioreale - Napoli, dialogano insieme a Giurita Zoena, Psicologa Psicoanalista Membro associato della Società Italiana di psicoterapia Psicoanalitica SIPP.

Questo testo è arrivato in casa mia letteralmente come un dono: mi è stato recapitato in un pacchetto nella primavera del 2022 e recava con sé una dedica molto affettuosa da parte della mia amica e collega Francesca Cappuccio, con la quale ho condiviso gli anni impegnativi e goliardici della specializzazione presso la Sipp di Roma. Non solo. Il libro è arrivato in un momento in cui non era ancora molto chiaro se la pandemia fosse terminata o meno, quando le misure di distanziamento e protezione si stavano un po’ allentando ma era comunque consigliabile indossare le mascherine ed evitare gli affollamenti. Insomma in una situazione in cui siamo passati da regole direttive a indicazioni soggette a libera interpretazione.
Ricordo che quando l’ho sfogliato mi sono sentita sollevata e nel contempo stupita: in questi anni di caos qualcuno aveva pensato! Addirittura aveva scritto per mettere a disposizione di molti quelle idee e quelle parole. Ho visto subito che il lavoro era il frutto di un gruppo. Un gruppo di cui si avverte immediatamente la struttura solida e il legame affettivo. Questo mi fa sorridere di cuore mentre mi viene in mente Freud che di fronte allo sgomento e all’impotenza portati dalla Prima Grande Guerra aveva detto che l’aspetto più importante era rimanere insieme.

Tracce di pensiero

Incontro la curatrice e tre delle nove coautrici su una piattaforma on line, perché se c’è una cosa che la pandemia ha benignamente potenziato è il ruolo sociale dei social, grazie ai quali un sabato mattina di gennaio 2023 posso incontrare le colleghe di Napoli.

GZ: La mia prima domanda su questo interessantissimo testo scaturisce in realtà da una curiosità legata al vostro gruppo e al vostro metodo di lavoro. Ecco, come funzionate?

LV: Di sicuro il nostro non è un gruppo degli ultimi giorni, anzi. È nato moltissimi anni fa, aggregando i diversi membri con l’intento di portare avanti un lavoro di supervisione all’interno di un’istituzione, nello specifico un Centro di Riabilitazione. Questa attività è andata avanti per dieci intensissimi anni e quando l’esperienza istituzionale si è conclusa, si è fatto avanti il desiderio di continuare a portare avanti con cadenza mensile le supervisioni di gruppo all’interno del mio studio. Tutte le partecipanti avevano già svolto con me una supervisione individuale, questa è stata un’esperienza portante per conoscersi bene e intendere la clinica. Siamo cresciute molto insieme. Il pregio di questo testo è che la mia cura non è stata asettica, le parti che ho scritto sono il frutto di tutto il lavoro di gruppo, composto da persone che condividono lo stesso pensiero. Il testo non è solo un aggregato di contenuti, ma è un’organizzazione unica a più mani, dove la parte teorica è davvero il derivato di un pensiero comune.

GZ: Cos’è che vi ha tenute insieme prima e durante la pandemia?

LV: Di sicuro il comune interesse per le patologie del Sé e i disturbi della soggettivazione: i pazienti che incontriamo quotidianamente nei nostri studi depositano parti inaccessibili di difficile elaborazione in contesti di supervisioni individuali. Riteniamo che certe parti collusive si possono estrinsecare solo in un contesto di gruppo. La nostra metodologia è strutturata su associazioni libere, evocate dopo la lettura di un protocollo; io insisto sul fatto che se qualcosa accade come alterazione, bisogna soffermarsi proprio su quello: nel protocollo non specifichiamo il sesso e l’età dei pazienti, e le associazioni devono essere lontane dalla teoria ma piuttosto vicine al vissuto depositato. È meglio che il materiale non sia saturato di troppe informazioni. I membri del gruppo si esprimono lasciando emergere indicazioni che sono presenti nelle parole del paziente. Quando c’è stato il primo lockdown abbiamo subito un improvviso allontanamento, dai pazienti e tra di noi. Con il passare del tempo mi è balenata una riflessione: prima del confinamento, ma quando il contagio era già presente e se ne parlava, non tolleravo la presenza dei miei pazienti, che invece avevo sempre accolto con cordialità nel mio studio che si trova presso la mia abitazione. La paura del contagio aveva preso il sopravvento. Avevamo quindi tutti bisogno di aiuto per continuare a lavorare. Così ho contattato il gruppo e abbiamo continuato a fare da remoto il nostro prezioso lavoro. Durante il lockdown ci siamo viste con cadenza settimanale e a volte anche nel fine settimana per concepire e familiarizzare con la possibilità del remoto. Le nostre riflessioni a caldo su ciò che stavamo vivendo hanno lasciato emergere l’orizzontalità del trauma. Si è pian piano delineato un concetto centrale, cioè che eravamo immersi tutti in una situazione antisoggettivante: rivoltati come calzini, tutti i pensieri che direzionavano il nostro lavoro da una dimensione di dentro a una dimensione di fuori erano bloccati perché ora il fuori era minaccioso. Ed eravamo di fronte a un processo inverso, pensieri e lavoro terapeutico si rivolgevano dal di fuori al di dentro.

GZ: Possiamo immaginare quanto questo processo inverso sia stato sconvolgente soprattutto per gli adolescenti che attraversano fisiologicamente un’età che li apre al gruppo di pari e all’esterno.

BV: Sicuramente. Ho sentito con estrema forza tutte le emozioni che arrivavano dal malessere dei giovani. E sono stata colpita da questo. Mi occupo di studenti universitari con età compresa dai 18 ai 24 anni, e vedo anche molti giovani in psicoterapia nel mio studio. Durante la pandemia ciò che emergeva in modo preponderante era la comune sensazione di essere interrotti, interrotti nella quotidianità, nelle amicizie, nella scuola, negli amori. Interrotti da una vita da remoto. E l’angoscia dei progetti di vita sospesi, la forza di questi vissuti di impotenza, è stata pazzesca, era un’irruzione.

LV: Tutte le connessioni sono saltate, e questa situazione si rispecchiava esattamente in ciò che accadeva nel percorso antisoggettivante e nei dispositivi che continuamente perdevano la linea. Dobbiamo in questo momento fare una grande riflessione sulle nuove tecnologie, perché l’ingresso di internet ci ha catapultati in una logica più vicina a quella dell’inconscio, nella quale saltano le coordinate spazio-temporali condivise dando l’impressione di essere insieme ma separati, di stare qui e altrove. Tutto questo può sostenere l’emergere di contenuti profondi del primario. Sembra strano da dire ma è quasi stata una felice coincidenza, l’esterno che sollecita questi processi inconsci. Questa è stata per noi una possibilità, abbiamo visto l’emergere di contenuti che altrimenti non sarebbero apparsi. L’esterno si è fatto portavoce del monito di ricatapultare tutti all’interno, ed ecco che sono comparsi proprio nelle sedute a distanza racconti di situazioni traumatiche, o addirittura la presenza di fenomeni allucinatori nella seduta da remoto. La pandemia è un’occasione di riaffermare dei costrutti teorici come il setting e di introdurre riflessioni, come sollecitava Bleger, sul precipitarsi nel primario e sugli elaborati scissi. Siamo molto lontani da rappresentabilità e simbolizzazione.

BV: A questo proposito tra i giovanissimi, così come negli adulti, si è verificato un aumento quasi esponenziale dei livelli di ansia e degli attacchi di panico proprio a causa del vissuto di interruzione della continuità dell’esperienza. I ragazzi hanno avvertito molto il rischio di perdere le vecchie acquisizioni, di regredire a livelli infantili e meno adulti. L’aggressività, tanto importante per questa fascia di età per rappresentare il conflitto, per differenziarsi, in pandemia è venuta meno. La spinta soggettivante è stata repressa. La situazione di chiusura, confinamento e paura impediva la possibilità ai giovani di affermare sé stessi attraverso il conflitto. Di fronte a uno scenario di morte si è fatta avanti una equivalenza tra spinte aggressive e morte, per cui la stessa aggressività non veniva percepita anche come spinta vitale, ma confusa appunto con la morte. Hanno vissuto il rischio concreto di contagiare i genitori, uccidendo gli altri e i progetti, e con il passare del tempo si è generata un’ambivalenza di fondo: in prima istanza la chiusura è stata colta come un’opportunità per rallentare, recuperare energie, studio arretrato, riposo, ma successivamente tutto questo si è trasformato in angoscia profonda. Gli attacchi di panico erano proprio l’indice dell’aumento della paura di non essere più gli stessi, di non riuscire più a essere quelli di prima.

GZ: A proposito di dentro e fuori, di situazioni ribaltate e ambivalenti, come hanno vissuto la pandemia coloro che già erano confinati, i detenuti?

MGZ: Io lavoro a Poggioreale, un carcere giudiziario enorme. Lì la tensione è stata fortissima e tangibile. Dopo il 6 marzo 2020, con il DPCM che decretava l’impossibilità di avere colloqui con i familiari, è iniziata una rivolta terribile: i detenuti hanno scardinato i blindati, creato danni dalla portata disastrosa e in seguito a questi incidenti hanno dovuto forzatamente trasferire qualcuno. Ancora oggi il portone blindato porta il segno della fusione di alcune parti metalliche ricostruite dopo essere state distrutte. Successivamente l’amministrazione penitenziaria ha concesso le visite da remoto: i cellulari, generalmente sequestrati ai detenuti, erano stati restituiti per essere utilizzati come mezzo di comunicazione. Idealmente si è costruito un filo tra un dentro e un fuori che generalmente non c’è. Tutto questo ha aperto scenari nuovi, i detenuti, che sono abituati a ricevere visite, attraverso i cellulari invece potevano “rientrare a casa”, accogliere i familiari, potevano rivedere le loro cose. Qualcuno mi ha raccontato di aver rivisto l’albero di limoni del nonno oppure il proprio cane. La tecnologia aveva rivoluzionato un mondo così rigido e cadenzato come quello del carcere, aprendo spaccati di affettività. Si era creata una specularità, tutti erano reclusi. E inoltre il carcere, da sempre considerato luogo di contagi, talvolta sporco e inquinato, era diventato un’oasi sicura: il male arrivava dall’esterno. Siamo stati noi operatori a infettare i detenuti. In quel periodo, inoltre, si è verificato un fenomeno nuovo, cioè una riduzione di reati e arresti. Con il confinamento non c’erano occasioni per poter delinquere. Eppure, qualcuno è riuscito ugualmente a farsi arrestare, un detenuto ad esempio è rientrato per la sua distruttività, l’ambiente da cui era tornato lo aveva espulso, era stato denunciato dalla madre. Molte famiglie sono implose durante la pandemia, i reati commessi sono stati per lo più intrafamiliari e si è reso necessario un contenimento più grande come quello carcerario.

GZ: Il fenomeno del sovvertimento è molto interessante perché è avvenuto a più riprese e su più livelli. La normalità che avevamo sempre conosciuto è diventata pericolosa, la realtà così come la conoscevamo aveva cambiato lineamenti e parametri. L’infezione da SARS-CoV-19 è improvvisamente diventata la priorità di tutti. E la sua pericolosità ha rivaleggiato e vinto sulle altre patologie, da sempre considerate mostri da sconfiggere tempestivamente. Mi riferisco in modo particolare al cancro.

FC: Per i pazienti cronici la vita nel lockdown è stata ancora più traumatica e il paziente oncologico ci dà bene l’idea di ciò che è accaduto a chi combatte con una patologia grave e debilitante. Elaborare l’esperienza di malattia, soprattutto la diagnosi, è diventato un processo più complesso. Per fortuna tutte le terapie necessarie sono state portate avanti, ma gli screening oncologici sono stati rinviati, le chemioterapie sono state effettuate però senza l’incontro con il medico di riferimento. Quelle visite erano momenti fondamentali di scambio, confronto e a volte rassicurazione, non averle ha generato profonde angosce. Molti pazienti si sono sentiti smarriti, e l’assenza dei parenti durante la comunicazione di peggioramento o recidive ha amplificato la condizione di isolamento. Gli ambulatori eliminavano le visite, gli interventi venivano rinviati, e ciò ha esposto pazienti già spaventati e soli a ulteriori preoccupazioni angosciose. Molti di loro, con difese immunitarie bassissime, avevano difficoltà a uscire di casa per poter proseguire i trattamenti, non dovevano assolutamente ammalarsi di covid per non dover rinviare la terapia. Questo ha suscitato terribili vissuti di morte. Il drammatico paradosso è che il luogo di cura, l’ospedale, si era trasformato da luogo di vita a luogo di morte, e anche in questa situazione possiamo intravedere l’orizzontalità del trauma. Le distanze sono aumentate e la percezione si è modificata. Il dramma comune non ci ha avvicinati ma ha divisi nonostante l’impegno e la volontà di tutti. Con alcuni pazienti ho portato avanti il lavoro da remoto perché la possibilità di continuare a distanza è stata occasione di sostegno e delicata presenza, e ci ha consentito di dare espressione e significazione ad antichi traumi sullo sfondo della pandemia, purtroppo risvegliati dal cancro e dal covid. Il lavoro di sostegno è di per sé caratterizzato dal riemergere di traumi pregressi, quindi lo spazio da remoto è stata una possibilità di pensiero. Lo spettro della morte ha bloccato ogni spinta vitale e minato la fiducia nel luogo che accoglie. Ad esempio, una paziente che doveva essere operata ma non riusciva a mettersi in contatto con il chirurgo, malato di covid, ancora una volta si è sentita messa da parte. In questo senso la pandemia ha amplificato i vissuti traumatici.

La forza di queste esperienze ha rievocato nella mia mente alcune immagini, quelle del film del 1999 “Ragazze interrotte” e della più recente serie TV “Stranger things”. La pandemia che abbiamo vissuto ha costituito uno spartiacque trasversale che nessuno di noi si aspettava di affrontare: essa ha stravolto la concezione del tempo a più livelli, quello soggettivo, oggettivo e sociale. Nel film citato è la psicopatologia a fare irruzione nella vita delle giovani donne, che sentono interrotta la continuità della propria esistenza, mentre quella degli altri, i presunti sani, continua a scorrere come al solito. Questo accadeva prima dello sconvolgimento pandemico. Oggi ciascun essere umano avverte dentro di sé di essere spezzato, di aver subito una interruzione. La progettualità di ciascuno è profondamente legata a una consapevole espressione del Sé e l’atteggiamento emotivo nei confronti della propria esperienza temporale e delle aspettative ad essa connesse rappresenta un approccio fondante nei confronti del processo di individuazione come nucleo della dimensione soggettiva del tempo. Ma questo tempo interrotto e sospeso ha creato una dimensione di “sottosopra”, come accade ai giovani protagonisti della serie Tv: non solo ciascuno non è più uguale al sé stesso di prima, ma addirittura è e contemporaneamente non è. A livello sociale abbiamo tutti subito un appiattimento, le priorità sono state sovvertite, la tecnologia ha confuso i piani, equiparando il qui e il là, la presenza e l’assenza, i corpi e gli ologrammi, il prima e il dopo. Non solo, l’elaborazione ostile degli stimoli esterni, legata alla minaccia e alla pericolosità del contagio, ci ha fatto ripensare alle spinte aggressive, ormai percepite come esclusivo motore della distruttività piuttosto che del processo di soggettivazione. Mi ha molto colpito ciò che la collega ha raccontato rispetto alla distruzione dei portoni blindati del carcere: quelle porte erano esattamente le stesse prima e dopo il decreto del 6 marzo 2020, e questo ci fa comprendere che in precedenza non erano mai state distrutte non perché infrangibili, ma soltanto perché i detenuti hanno scelto di non farlo, sentendosi probabilmente contenuti dall’istituzione. Questo contenimento ormai è saltato per tutti, così come le connessioni, alle quali si sono aggiunte quelle virtuali con non pochi dubbi e difficoltà. Tutto questo ci ha messi di fronte alla consapevolezza dell’incompletezza dei nostri modelli teorici, mentali e di cura. La tecnologia si impone, entra sempre di più nei nostri studi, nelle nostre case, nelle nostre vite, costringendoci a vivere saltando dal livello virtuale a quello reale e viceversa. In questo senso credo che recuperare la spinta aggressiva come possibilità di sostenere la vita e la conoscenza, può consentire a noi addetti ai lavori di recuperare la fiducia nel contenimento e nel successivo sviluppo di atteggiamenti empatici. Ciò ci consentirebbe uno spazio di riflessione sulle nuove dimensioni mentali, sociali e tecnologiche che avanzano attraverso una partecipazione non distaccata, che valorizza la condivisione dell’attesa di conoscenze nuove e creative piuttosto che la pretesa di uno scenario esaustivo e definitivo.

Giurita Zoena

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Bibliografia

 

BACCHINI D., VALERIO P. (a cura di 2001), “Giovani a rischio”. Franco Angeli, Milano, 2001,

CORREALE A., RINALDI L. (a cura di, 1997), “Quale psicoanalisi per le psicosi?”. Raffaella Cortina Editore, Milano, 1997,

FREUD S. (1920), “Al di là del principio di piacere”. OSF 9, Boringhieri, Torino, 1981,

MATARAZZO O. (2001), “”Emozioni e adolescenza”. Liguori, Napoli, 2001.

Filmografia

"Ragazze interrotte" (titolo originale "Girl, interrupted), film drammatico, USA, 1999, regia di James Mangold. Dal romanzo autobiografico di Susanna Kaysen (1994),

"Stranger things", serie TV di fantascienza, USA, 2016, regia Duffer Brothers.

 

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