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Giovanni Starace. Il Napoli, Napoli e la grande bellezza

 A partire dalla metà di febbraio si è registrato negli alberghi napoletani un incremento delle prenotazioni pari al doppio dell’anno precedente per le due ultime settimane di aprile. Un noto statistico ha elaborato un sistema per cui ha considerato una di quelle due settimane cruciali per la squadra del Napoli per aggiudicarsi matematicamente… parola impronunciabile come vuole il pensiero magico al quale non si crede, ma che è sempre bene rispettare.

Il sindaco di Napoli, con un improvviso impulso tra il razionalistico e l’ottimistico, ha messo a disposizione dei napoletani piazza Plebiscito, la più grande della città, per festeggiare la squadra dopo l’ultima partita di campionato. Che una figura istituzionale possa prendere tale iniziativa è del tutto plausibile, che in virtù del suo ruolo possa essersi espresso liberamente non considerando l’impatto che il pensiero magico possa giocare in senso avverso è anche comprensibile.
È la festa di una squadra e di una città, di una squadra «impossibilitata a perdere», che esprime un gioco fatto di bellezza e di efficacia: due qualità che spesso non si coniugano. Diciamo meglio: non si sono mai coniugate nel gioco di quella squadra che per anni ha vinto il titolo italiano. Una perfetta congiunzione tra l’Ideale dell’Io e la realtà in cui l’Io programma, dirige, orchestra.
È la festa di una città intera. Come tutte le feste presenta manifesti tratti di maniacalità. Anche chi non si occupa di calcio è identificato con tutto ciò che sta accadendo. È la festa di tutti, o quasi tutti. Napoli funziona così. È una città che ingloba, che integra, è stata definita una città «porosa».

Ciò che viene da fuori viene inglobato, riplasmato, fatto proprio. Il dialetto napoletano è ricco di termini derivati dal francese e dallo spagnolo, i dominatori principali lungo i secoli. Chi si mostra disponibile nei confronti della città viene adottato e integrato. Luciano De Crescenzo ha detto: “Napoli non è una città è un concetto”.
Dries Mertens è stato un giocatore della squadra del Napoli fino allo scorso anno. Poi scelte personali e scadenze contrattuali lo hanno portato a giocare in un’altra squadra. Mertens è scaltro, veloce, oltre ad avere un grande talento; sempre in guardia nel tentativo di fare gol di «rapina», veloce nei movimenti, pronto nel pensiero. Assomiglia molto di più a un abitante dei Quartieri spagnoli che a un cittadino delle Fiandre. Per queste sue caratteristiche e per il suo talento che ne hanno fatto il giocatore che ha segnato più gol nella storia delle squadra, è stato adottato dai tifosi napoletani e ha ricevuto un nome nuovo, molto più consono alla cultura partenopea: è stato ribattezzato col nome di Ciro. Tanto che quando veniva acclamato per aver segnato, l’altoparlante gridava: «Ciro Mertens». Cittadino di Napoli; in segno di riconoscenza e di identificazione con la città ha dato a suo figlio il nome di Ciro Romeo.

In questo frastuono di festeggiamenti annunciati che attraversano tanta parte della città, è accaduto un fatto singolare. Nella piazza dei Miracoli, confinante col quartiere della Sanità, è stato ultimato in questi giorni un murales che si estende sull’intera facciata di un palazzo che rappresenta «lui», Diego Armando Maradona. Qui si apre una storia nella storia, quella di un vero e proprio eroe cittadino. A Mertens, che è stato adottato, gli è stata riconosciuta la doppia appartenenza, Maradona è stato fatto rinascere a Napoli. È molto di più di un semplice processo di naturalizzazione. Il luogo della sua nascita, forse va ricordato è l’Argentina, ma non importa egli è figlio della città di Napoli. Napoli lo ha generato e ha creato con lui un legame di tipo winnicottiano: Maradona non può essere senza Napoli, Napoli non può mantenere la sua diffusa notorietà senza Maradona. In ogni angolo del mondo se si parla di Napoli si evoca Maradona, se si parla di Maradona si associa Napoli.

C’è sempre bisogno di eroi, ma nel suo caso c’è qualcosa in più, si è realizzato un processo di «beatificazione». Nel bar “Nilo”, un caffè che si trova al centro storico, in un altarino riccamente decorato, è conservato sotto vetro un capello di Maradona. E su un manifesto che sovrasta il tutto c’è scritto: “Dio creò il calcio, poi chiamò Diego e gli disse di «insegnarlo”. In una piazzetta dei Quartieri spagnoli c’è un famoso murales che è meta di pellegrinaggio: a somiglianza di un vero e proprio santuario c’è una diffusione di immagini iconiche, di bandiere, di fotografie, di sciarpe, di ogni altro oggetto che lo ricordi. Il tutto molto vicino alla tradizione cattolica, in una perfetta congiunzione tra il sacro e il profano; il santuario di Padre Pio può essere l’esempio più immediato.

Si può assistere, in virtù di ripetute sublimazioni, a un singolare processo di identificazione delle masse, ma non con un capo, bensì con un artista o con un gruppo di artisti del bel gioco che procedono all’unisono. C’è qualcosa di magico in tutte queste cose, sbaglia chi le interpreta come un «primeggiare», come una negazione dei problemi quotidiani di cui sono invece ben consapevoli gli abitanti della città, come un «riscatto». Non c’è nulla di tutto questo: c’è solo il senso profondo di vivere la realizzazione di un’arte, così come lo è stato per la canzone e per il teatro, di essere capaci di rintracciare la bellezza e di volerne godere, di assistere alla creazione di una poesia di movimenti che esprimono tutti un’armonia infinita.

 

Giovanni Starace
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