Guido Benzoni, C'è ancora domani di Paola Cortellesi

Non è semplice recensire un film come “C’è ancora domani”. Il motivo principale credo sia collegato all’enorme, e probabilmente anche inatteso, successo di pubblico, che ha reso il film girato da Paola Cortellesi quasi un fenomeno di costume nazionale.
La visione del film ha unito le diverse generazioni di spettatori italiani, comprendendo le giovani generazioni, che non hanno avuto alcuna esperienza diretta di quella società familiare post bellica, certamente patriarcale e basata sul comando, manifesto, dell’uomo sul nucleo famigliare. Le vecchie generazioni, ma anche quelle di mezza età come quella dello scrivente, hanno potuto cimentarsi, oltre ad apprezzare la riuscita indiscussa del film per quanto riguarda il timing azzeccato, nel cogliere gli innumerevoli riferimenti e citazioni a tanti classici, e meno  classici, del cinema italiano, dal neo realismo al cinema contemporaneo.

Partirei dunque col dire che “C’è ancora domani” è un film riuscito, in quanto in modo  “semplice”, racconta una storia dove sono inseriti tanti temi importanti che collegano il passato ed il presente della nostra storia, ponendo al centro uno dei tanti vertici di lettura possibili sul rapporto uomo-donna (marito e moglie): il focus della sceneggiatura è posto sulla violenza (maschile) e sulla futura e progressiva emancipazione (femminile). Il film è stato già visto in Italia da più di quattro milioni di spettatori, incassando al botteghino più di “Oppenheimer” e di “Barbie”, due film prodotti delle major nordamericane, che  avevano investito moltissimo su questi due kolossal” per riportare il pubblico nelle sale  cinematografiche degli Stati Uniti, dopo il Covid
Il fatto che “C’è ancora Domani” sia dunque divenuto un film “da andare a vedere”, un  fenomeno quasi di costume, mi ha rallentato nella produzione di questa recensione. Ho avvertito, infatti, quasi una resistenza a dovere immediatamente dire o affermare qualcosa a proposito di questo lungometraggio, forse in una condizione di mia personale uggia al mainstream contemporaneo, al nostro sistema comunicativo, imparentato con il sistema algoritmico, che deve immediatamente produrre o evidenziare una risposta all’evento, anziché  lasciare il tempo che lo stimolo (il film) si depositi e che si abbia il tempo di dire qualcosa di significativo.

Gianni Rodari, in una video intervista (del 3 Gennaio del 1979) poco prima di morire nel 1980, a proposito “dello scrivere”, diceva che scrivere, o fare lo scrittore, diventa necessario  quando si sente il “braccio che fa male e non può più stare fermo”. Rodari credo intendesse dire in quella bella intervista fatta con i bambini che forse si scrive davvero quando si ha davvero qualcosa da dire e non solo per scrivere tanto per fare, punto e basta.
Questa è dunque la premessa per contestualizzare questa recensione ormai quasi primaverile di un film uscito nell’Autunno del 23. Il film sta adesso per uscire dai confini nazionali, ma è ancora in proiezione nelle sale.

Nella mia ventennale esperienza come psicologo nel campo della Tutela Minori, ho troppe volte visto donne maltrattate, o selvaggiamente picchiate se non quando uccise dal proprio  partner.
Quante volte ho visto le donne (le madri) porsi nella condizione di denunciare il proprio partner e dover essere loro stesse ad uscire di casa insieme ai figli, andare in un domicilio segretato, ricostruirsi una vita ripartendo da zero. Ho sempre pensato quanto fosse un sistema legislativo ingiusto, dove l’aggressore restava a casa e chi doveva ricominciare da zero era la vittima, quando trovava il coraggio e la forza di denunciare. I fatti tragicamente quotidiani  relativi ai femmicidi (un giusto e necessario neologismo, considerato che è un termine giovane, forse cacofonico da un punto di vista linguistico ma che rende giustizia al genere fenomenico dell’aggressore, quasi sempre uomo, e della vittima, quasi sempre donna, che ha  poco più di qualche anno) confermano il tema centrale del film.
Questo film centra dunque meritoriamente il proprio focus sul tema, storico e precedentemente quasi fisiologicamente accettato anche legalmente, della violenza maschile sulle donne; un fenomeno connesso con la società patriarcale, rappresentata dalla vicenda di  una famiglia romana di modesta estrazione nel 1946, in pieno dopoguerra con l’esercito  “Alleato” a presidiare ancora la città.

La scelta del bianco e nero, gli omaggi e i rimandi al neo realismo di Roberto Rossellini e  Vittorio De sica, anche questo elemento filmico, funziona, regge, ed è un altro merito del film.  Creare un ponte tra i grandi classici del passato come, ad esempio, “Roma Città Aperta”  oppure “Ladri di biciclette”, è un fatto meritorio che ricorda alle nuove generazioni (alle prese con la tecnologia, i social network, e proiettate al futuro, connesse in un tambureggiante presente) la situazione della popolazione italiana dell’epoca.
Una generazione, quella del primo dopoguerra presa tra il ritorno post bellico ad una vita  normale e le tensioni ancora esistenti nell’animo di chi quei tremendi eventi bellici e il ventennio della dittatura fascista li aveva vissuti davvero, da grande o da bambino.  Memorie di una dittatura poi divenuta tragicamente parte attiva nel secondo conflitto  mondiale con il conseguente bagaglio mnemonico di orrori legati alla omologazione delle Leggi Razziali e a tutti fatti storici tragici successivi, legati alla Guerra, alle campagne belliche, alla Resistenza; fatti storici che, non troppo curiosamente, dominano tuttora il dibattito politico italiano attuale, tuttora pregno della dialettica fascismo/antifascismo, esito di un paese che non ha probabilmente fatto i conti con il proprio passato in modo netto e  convincente.

Il successo senza precedenti di “C’è ancora domani” è figlio proprio del lavoro indiscutibilmente riuscito da parte di Paola Cortellesi sulla sua immagine e riconoscibile (proviene da trent’anni abbondanti di programmi televisivi), tra il corpo esibito della star (che nel film dialoga con lo spettatore in insistiti primi piani, mezze  battute in romanesco, battute e tempi di reazione da sketch) e il ruolo della protagonista Delia, moglie, madre e lavoratrice nell’Italia del 1946 che diventa simbolo della  subalternità politica, sociale e anche fisica di intere generazioni di donne.
In questo contesto anche si colloca il personaggio maschile interpretato da Valerio Mastrandrea, Ivano, un uomo violento e dalla rabbia incontrollata che sfoga in qualsiasi modo  sulla moglie Delia per qualsiasi cosa che produca errore, fastidio, imprevisto; un uomo, quello  interpretato dal (bravo) Valerio Mastrandrea cui la sceneggiatura regala, a proposito della propria violenza sregolata e coatta, un possibile alibi post traumatico derivante dal fatto di  essere reduce, non sappiamo in che forma, dalla Prima e poi dalla Seconda Guerra Mondiale.
La composizione della famiglia (la madre, il padre, i tre figli, la primogenita femmina, i due maschi, il nonno paterno chiamato papà da Delia (Cortellesi), che si era sposato con una  cugina, richiama un nucleo chiuso, che si apre al mondo con difficoltà e nell’occultamento  della violenza.

La scena iniziale con lo schiaffo dato da Mastrandrea alla Cortellesi sembra così quella che  Lichtenberg (1992) chiama “scena modello” in Psicoanalisi. Il concetto di “scena-modello”,  dal canto suo, è stato messo a punto da Lichtenberg per designare proprio un episodio - ricostruito insieme dai due membri del rapporto psicoterapico, paziente e analista - che  contiene in sé la caratteristica di riassumere tutta una modalità reiterata di relazione - per  esempio tra madre e figlia - per un lungo periodo.
La Cortellesi (Delia) si sacrifica costantemente per la famiglia, il marito è frustrato (da due  guerre e da una postura modesta e acritica alla propria fragilità nel ricoprire il ruolo di quello  che un tempo si denominava il “Capofamiglia”). Ivano ha crisi di rabbia e di cieca violenza  nei confronti della moglie ma anche dei momenti, rari, di pentimento in cui torna ad  accarezzarla come nel periodo iniziale della loro relazione facendo intuire che i due, inizialmente, erano stati davvero innamorati.
L’anno di riferimento è il 1946, Roma è occupata ancora dai soldati americani, bisogna votare  (su 25 milioni di votanti si dirà alla fine ci sono andate 13 milioni di donne), Delia fa tanti lavori per integrare il magro bilancio familiare (anche qui si può notare un  riferimento al futuro “gender gap”, alla differenza di pagamento tuttora attuale tra lavoro maschile e femminile in contesti aziendali ma non solo…) .

Nel film, tra le tante cose che ci sarebbero da menzionare, si evidenzia il tema  dell’innamoramento della figlia con il fidanzato arricchito, un rapporto che poi decade nel  momento in cui la pasticceria di famiglia subisce un attentato. Nuovamente nel rapporto della  figlia con il fidanzato, si pone come ripetizione il cliche’ della femmina che si appoggia al proprio maschio, Delia vede in questo un potenziale fallimento nel cercare di regalare alla  figlia un futuro diverso dal suo.
Ad un certo punto, allo spettatore viene posto il dubbio che Delia possa abbandonare la sua  famiglia, il suo inferno claustrofobico che occlude la sua soggettività e fuggire con il suo  vecchio amore giovanile, un meccanico gentile, un uomo gentile, il bravo attore (Vinicio  Marchioni) che in “Tutta colpa di Freud” recitava la parte di un uomo sordomuto.

Invece Delia alla fine non scappa e va a votare ed in questo si riscatta con la figlia, non  abbandonandola, che le riporta i documenti che le erano caduti in casa.  Nella massa delle donne, che sono in coda per votare, il marito violento Ivano non ha più  gioco facile nel maltrattare o essere violento e guarda impotente la marea femminile che inizia ad essere protagonista nell’avventura democratica dell’Italia Repubblicana. I figli minori di Delia sono due bambini volutamente volgari, dal lessico pieno di parolacce e impulsivi, di nuovo torna il tema di un maschile “impunito” e non legato a un “dover essere”  diversamente dal destino femminile, in siffatto contesto
Nel film viene poi affrontato il tema del lutto, la morte del nonno paterno che concentra tutta  la ritualità del funerale cattolico, le frasi fatte di un prete che non conosceva l’uomo che è  venuto a mancare e che ne tesse le lodi e una certa ritualità vuota di senso, con la messa in  latino, sentita come un dovere e non certo come un autentico momento di passaggio e saluto.
D’altra parte l’uomo, che veniva chiamato “Papà” da Delia, infermo e a letto, assistito dalla  nuora in modo infermieristico, è anche il consigliere di violenza del figlio che viene da lui biasimato, prima di morire, perché aggredisce in modo troppo frequente la moglie; al contrario il nonno materno suggerirebbe un trattamento meno frequente ma più “incisivo” per rendere la moglie completamente assoggettata. Tante altre cose ci sarebbero da dire, ne vorrei  aggiungere solo qualche cenno.

Parlando con i nostri figli oggi, molti sono sensibili al tema della società patriarcale; questo,  dal mio punto di vista indica che, culturalmente, siano presenti ancora tanti lasciti, tanti  “depositi”, direbbe J. Bleger (1967), di quella cultura e mentalità.
Non siamo più entro quella società patriarcale, ma i lasciti, gli assetti interni, la dialettica tra  l’emancipazione femminile e il ruolo del maschile… insomma tanti temi sarebbero davvero  da esplorare con tanta attenzione e approfondimento.
Posso anche aggiungere che, curiosamente, oggi gli stessi adolescenti italiani ormai inclusivi  e tolleranti, ad esempio sul tema della omosessualità, non più tabù, amano moltissimo i  cantanti “trapper”, spesso immigrati di seconda generazione, cantanti i cui testi sono intrisi  nuovamente di sopraffazione e di ritorno alla donna oggetto (lascio in bibliografia per chi  volesse ascoltare una canzone di Simba La Rue).
Il successo di questi cantanti, della loro musica e soprattutto dei testi incuriosisce; un genere  non più rivoluzionario nella evoluzione dei costumi come il rock and roll, contestatario e rabbioso contro una società conformistica come il punk o il metal, ma un che propone una  rabbia cieca e nichilista e strizzatine d’occhio evidenti alla malavita, commista al concetto di  “bella vita” derivante da guadagni legati allo spaccio di droga e al sesso come forma di  dominio dell’uomo nei confronti della donna. La donna in questo caso torna protesi maschile, donna oggetto considerata ad uso e consumo sessuale. Sarebbe curioso soffermarsi sulla  coesistenza abbastanza evidente di questi due fenomeni.

Il “braccio” direbbe Gianni Rodari, a questo punto vorrebbe dire tante, forse troppe cose insieme. Allora si giunge alla conclusione di questa recensione, con la consolazione di avere  meditato questo scritto e di non averlo scritto “di corsa”, per far si’ che fosse quasi  contemporaneo al clamoroso successo del film.
Non ha l’ambizione, questo film, di approfondire in modo eccessivo gli argomenti trattati, ma  certamente di darne testimonianza e suscitare avversione verso tutto ciò che è violento, obbligato, non libero.
Cortellesi, come interprete e come regista, e Mastrandrea, nella interpretazione di uomo sadico, superano il loro definitivo esame di maturità cimentandosi nel dramma con un tocco di ironia tragica.
L’una interpretando una parte drammatica con la sua ironia, rimasta integra e intonsa malgrado il trentennale impegno televisivo, e l’altro, Mastrandrea, interpretando un personaggio violento e dolente, lontano dai personaggi da lui usualmente interpretati nel passato, più adolescenti e stralunati.

Il film si chiude con un messaggio di speranza, il cambiamento è impegno e il cambiamento  risiede nel “femminile”. Come dicevo questo aprirebbe molti capitoli, mi resta da dire che, come recita il titolo, “C’è ancora domani”.
Il Domani dei diritti, di una legislazione seria che punisca in modo non più ambiguo la  violenza di genere, guardando senza pregiudizi il tema di come si sciolgono ad esempio i rapporti affettivi simbiotici… senza che esitino in tragedia, come invece quotidianamente accade tragicamente.
La stessa scelta di fare delle elezioni del 1946, le prime a cui le donne poterono  partecipare, il vero innesco dell’emancipazione di Delia è fuori anche dal nostro presente, in cui, al contrario, il diritto di voto è considerato una conquista ormai inefficace, persa nel trionfo dell’astensionismo, piaga di un presente socialmente  disilluso.
In conclusione “C’è ancora domani” usa la città di Roma (con la ottima sceneggiatura di Paola Cortellesi, Furio Andreotti, Giulia Calenda) e l’altrettanto efficace fotografia di Davide Leone, le sue coorti chiuse come quinte teatrali, come un palcoscenico: uno  spazio tempo artificioso e sospeso sul quale, da italiani, siamo saliti idealmente in  moltissimi, uno spazio nel quale la Delia di Cortellesi si è tradotta in modo iconico, nella possibile madre di tutte le donne di domani.

Bibliografia e filmografia
Josè Bleger (1967) “Simbiosi e Ambiguità Armando Editore, Roma,
Joseph Lichtenberg (1996) “Psicoanalisi e Sistemi Motivazionali” Raffaello Cortina, Milano,
Simba La Rue “Baby Gang - Bentley Feat. Simba La Rue, J Lord [Official Video] You Tube,
Gianni Rodari intervistato dai bambini (1979) Video Yuo Tube (Play RSI).

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