Rinascere dalle ceneri: cinema e psicoanalisi negli anni ʼ50
Rinascere dalle ceneri: cinema e psicoanalisi negli anni ʼ50
di Sabina Salvaneschi
Post fata resurgo – Dopo la morte torno ad alzarmi.
(Motto della Fenice)
Un’introduzione storica al cinema e alla psicoanalisi degli anni ꞌ50, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, non può prescindere dal ricordo delle atrocità che nei sei anni del conflitto portarono all’evidenza l’annichilimento del pensiero e il predominio delle pulsioni distruttive che infettarono tutto il sociale: una trasformazione questa, che era già iniziata prima della guerra con il radicale rovesciamento delle regole del gioco della società civile e l’avvento di regimi totalitari che fondavano il loro consenso sullo sfruttamento delle pulsioni più violente delle masse (F. Troncarelli,2005). Nel decennio che seguì dunque, si rivelò necessario recuperare la spinta vitale, il desiderio di tornare a esistere pienamente senza perdere ciò che, anche in tempi di guerra, si era creato, tanto nel cinema quanto nella psicoanalisi. In una Europa devastata dai bombardamenti e impegnata nella ricostruzione, cineasti e psicoanalisti si impegnarono per ridare vita e diffusione al loro pensiero, a lungo messo a tacere (gli psicoanalisti furono costretti a fuggire dall’Europa) o mostrato sotto mentite spoglie (come nel cinema anni ꞌ40) per non superare i confini imposti dalle ideologie dittatoriali. L’operazione fu faticosa, come se per rinnovarsi ci fosse il bisogno di poter attingere, o meglio riprendere da dove ci si era interrotti. Il cinema riprese con fatica la produzione di pellicole neorealiste, in continuità con gli anni ꞌ40 (cercando al contempo di arginare l’invasione di film americani), mettendo in scena anche le costrizioni psicologiche determinate dalla guerra come in “Giochi proibiti” del 1951 del regista René Clément prima di rivelare una crisi identitaria che fu particolarmente evidente nei film di Bresson, in cui il linguaggio filmico non poteva più rifarsi ai criteri già noti ma abbisognava di nuove vie d’espressione che l’illustre regista traspose in un uso delle inquadrature, rivelatrici di una diversa concezione tra l’immagine e la realtà (F. Di Giammatteo, 2005). In Italia il rinnovamento fu più lento e, a trascinare il cinema fuori dalle paludose acque post-belliche, furono Rossellini e Visconti, ormai consapevoli del fatto che era necessario ampliare gli orizzonti pur salvando quel realismo cui entrambi si dicevano legati. Le loro produzioni, “Viaggio in Italia” (Rossellini, 1953) e “Senso” (Visconti, 1954) sono testimoni del cambiamento che porta a cogliere la realtà da un punto di vista fenomenologico il primo e attraverso la ricostruzione storica il secondo: lo sguardo si allarga così su luoghi, personaggi e fatti che comprendono ora un’intera società. Questi registi lasciarono in eredità i loro insegnamenti ad Antonioni, che coglierà l’uso dei tempi morti e delle azioni casuali rosselliniane, e a Fellini che da Visconti prenderà la capacità di proporre inquadrature seguendo linee armoniose e contenuti ricchi di significato.
Parlando di eredità, di lasciti stilistici e di pensiero, non possiamo che pensare a quelli che Freud, morto all’inizio della guerra, donò ai suoi eredi psicoanalisti. Prima della guerra e con i proclami antisemiti, le sedi di Vienna e Berlino della Società Psicoanalitica vennero chiuse e seguite dalla diaspora degli psicoanalisti, per la maggiorparte di origine ebrea, che andarono emigrando in diversi stati nel mondo. Una dispersione però che non recò un arresto del pensiero e della cura, ma che significò, in alcuni casi, un allargamento del corpus teorico.
Ne porta testimonianza il lavoro svolto da Bion che, pur partecipando al conflitto bellico, continuò a lavorare all'ospedale militare di Northfield, dove si occupò del supporto ai militari colpiti da stress post-traumatico. Fu in queste funeste circostanze che Bion cominciò a sviluppare la sua teorizzazione sui gruppi avventurandosi in un territorio inesplorato che, con la pubblicazione di due saggi nel 1943 e nel 1948, avrebbe trovato una formulazione definitiva in “Esperienze nei gruppi” (1961). Un esempio il suo, di quella continuità in cui il pensiero diventa struttura portante per far fronte agli orrori della guerra.
Terminata la guerra e nel tentativo di tornare alla normalità, in campo psicoanalitico si aprirono vivaci dibattiti. Sembra questo il caso della discussione che si accese nei primi anni ꞌ50 circa la nozione di controtransfert. Freud ne parlò per la prima volta nel 1910 al II Congresso di psicoanalisi, definendolo come una difficoltà inconscia dell’analista che deve quindi saperlo padroneggiare anche facendo ricorso alla propria analisi personale (1912), considerando dunque il controtransfert come un “impiccio” al lavoro dello psicoanalista. Paula Heimann nel 1950 propose l’idea che l’esperienza emotiva dell’analista di fronte al paziente (cioè il controtransfert), indicasse la natura dei processi inconsci del paziente stesso e potesse perciò essere utilizzato per interpretazioni efficaci. La novità risiedeva nel fatto che il valore dato al controtransfert passava dall’avere segno negativo ad acquisirne uno positivo divenendo strumento di lavoro. Volendo tentare una speculazione, si potrebbe pensare che la Heimann (di origine ebrea), volesse guardare oltre, lasciandosi alle spalle quanto accaduto durante la guerra, e facendolo nel modo più consono a uno psicoanalista, attraverso un pensiero nuovo e generativo di teorie successive. Il suo atteggiamento innovatore non fu unanimemente condiviso: Annie Reich in un tentativo conservatore delle teorie del padre della psicoanalisi, nel 1951 riprese le parole di Freud definendo il controtransfert come “l’effetto dei bisogni inconsci e dei conflitti dell’analista sulla sua comprensione e sulla sua tecnica” e condannandolo come acting-out.
Seguendo il filone speculativo, potremmo dire che come accade nell’arte cinematografica, che riprese le mosse dal già noto filone realista, anche nella psicoanalisi molti sentirono il bisogno di un ancoraggio al passato prima di poter guardare oltre, come se, dopo la guerra, un passato non belligerante fosse un posto più sicuro in cui sostare, rispetto a un futuro ancora incerto.
Keywords: #psicoanalisi #cinema #cura #guerra #anni50
Bibliografia
W.Bion, “Esperienze nei gruppi e altri saggi”, Armando, Roma 1971
F. Di Giammatteo, “Storia del cinema”, Marsilio, Venezia 2005
S. Freud, “Le prospettive future della terapia analitica”, O.S.F. Vol. VI
S. Freud, “Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico”, O.S.F. Vol.VI
P. Heimann, “Sul controtransfert”, in “Il controtransfert” a cura di Albarella Donadio, Liguori, Napoli 1998
A. Reich, “Sul controtransfert”, in “Il controtransfert” a cura di Albarella Donadio, Liguori, Napoli 1998
F. Troncarelli, “Psicopatologia della guerra”, tratto da «Il pane degli angeli», Aracne (2005)
PSICOPATIA AL FEMMINILE
Eva Contro Eva (1950)
Titolo originale: All about Eve
Regia: Joseph L. Mankiewic
Recensione di Silvia Longo
Il 23 Marzo 1951 un brillante Fred Astaire conduce la cerimonia degli Oscar all'Hollywood Pantages Theatre di Los Angeles. Eva contro Eva riceve un record di quattordici nomination, vincendo sei Oscar compreso quello per miglior film. Bette Davies, candidata come migliore attrice insieme fra le altre alla co-protagonista Anne Baxter e a Gloria Swanson de Il viale del Tramonto, vedrà la statuetta consegnata a Judy Holliday di Nata ieri -ne aveva ottenuto comunque già due, nel 1936 e nel 1939. Pochi mesi dopo a Cannes, ambiente di diversa ispirazione, il film è nuovamente premiato dalla giuria e l'attrice riceve l'ambito Prix d'interprétation féminine.
Oltre che al film, alla regia, alla sceneggiatura, ai costumi e al sonoro una statuetta andrà a George Sanders che seppure annoverato fra gli attori non protagonisti gioca nella vicenda un ruolo chiave nella parte del critico teatrale Addison DeWitt. E' pronunciata da lui la famosa battuta, a posteriori profetica, in cui rivolgendosi ad una esordiente Marilyn Monroe nei panni della svampita Miss Casswell le dice: «vedo la tua carriera sorgere come il sole a est». Sarà poi proprio la bellissima Marilyn, in elegante abito nero, a consegnare il premio per il sonoro a Eva contro Eva durante la cerimonia al Pantages Theatre.
La rilevanza del film, al di là dei riconoscimenti ufficiali, è testimoniata da altre pellicole che ne ricalcano il modello: da La Favorita di Yorgos Lanthimos (2018) dove una spregiudicata Abigail interpretata da Emma Stone si procura con ogni mezzo un posto di potere presso la corte della regina Anna, all'esplicito omaggio di Pedro Almodòvar che dedica Tutto su mia madre (1999) non solo alla madre, appunto, ma anche «a Bette Davies, Gena Rowlands, Romy Schneider. A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne (...)».
Marilyn Monroe alla cerimonia degli Oscar nel 1951
Proprio con una premiazione, in una chiara quanto critica allusione alla cerimonia degli Oscar, si apre il film. Eva Harrington (Anne Baxter) riceve fra gli applausi il prestigioso premio teatrale Sarah Siddons, mentre la cinepresa inquadra uno ad uno gli sguardi degli altri protagonisti della vicenda. Già nella prima scena ci viene annunciato un film sul teatro, girato con uno sguardo amaramente ambivalente sul cinema e sul mondo dello spettacolo. La voce narrante di Karen Richards (Celeste Holm) ci riporta attraverso un flashback all'inizio della vicenda quando Eva, apparentemente ingenua, umile e piena di sconfinata ammirazione per la non più giovane diva Margo Channing (Bette Davies) riesce ad insinuarsi nella più intima cerchia di lei con l'intenzione di diventarne, da fedele assistente, usurpatrice. Un lupo dalla fame feroce indossa i panni di un tenero, accattivante, innocuo agnellino per farsi strada in un mondo dove solo un baluardo di umanità resiste al narcisismo, al capriccioso protagonismo, alla fame di successo a tutti i costi.
Eva riceve il premio Sarah Siddons in una delle prime scene del film
La regia e la sceneggiatura di Joseph Mankiewicz creano da subito una tensione perfetta che non si avvale di effetti speciali né colpi di scena. Frammenti di verità emergono come tessere di un mosaico che solo alla fine si rivela in tutta la sua complessità. In questa narrazione nessuno dei personaggi, eccetto forse proprio Eva, può essere ridotto ad una singola dimensione, così che allo spettatore non è consentito di sostare troppo a lungo su alcuna certezza. Margo, diva scostante e capricciosa, spesso altezzosa, è anche capace di tenerezza, affetto e profondità; Karen, l'amica leale, sa essere anche cattiva; la vecchia assistente Birdie (Thelma Ritter), si rivela, oltre che scontrosa e burbera, protettiva. La sciocca Miss Casswell (Marilyn Monroe) dimostra con una battuta di aver capito benissimo l'arido egocentrismo del critico Addison DeWitt. E così via. E quando il dubbio sulle reali intenzioni di Eva comincia ad insinuarsi nella mente di Margo (mentre per lo spettatore è già una certezza), il marito Bill (Gary Merrill) ci ricorda che la stessa Margo non è di una pasta troppo differente, e la rimprovera: «come puoi offenderti perché una bambina cerca di assomigliarti il più possibile? Tu hai i denti aguzzi, a lei non sono ancora spuntati» al che Margo protesta: «non chiamarla bambina!» ricordandoci che dietro un'apparente vicenda edipica si cela tutt'altro. E' proprio questa sfaccettatura dei personaggi, mai banali o stilizzati a consentirci di guardare al film come ad una galleria di ritratti animati attorno ad una trama tanto simbolica quanto realistica.
Come la critica ha evidenziato, il film rappresenta una delle più efficaci rappresentazioni del teatro come metafora della manipolazione (si veda per esempio Luca Pacilio sulla rivista online Gli Spietati) e del mondo dello spettacolo come anelito all'appagamento di bisogni narcisistici. Infatti Eva, accecata dal bisogno di successo al quale sacrifica ogni relazione, afferma: «immaginate: sapere ogni sera che centinaia di persone ti amano. Sorridono, i loro occhi scintillano, li hai resi felici. Ti vogliono. Gli appartieni. Questo ha un valore inestimabile». E seppure non c'è condanna nei confronti di questo lato dell'umano, soggetto ad inebriarsi di successo, un versante più oscuro e pericoloso si palesa nel momento in cui la ricerca di protagonismo spazza via altri valori: «tutte le religioni del mondo si sono unite in una sola e noi attori ne siamo le divinità» afferma Margo. Forse proprio per questa sua posizione critica rispetto alla cultura del narcisismo Mankiewicz non ha mai ottenuto una fama pari ai suoi meriti. D'altra parte egli stesso esorta alla necessità di contrastare la cultura del divismo affermando attraverso il proprio alter ego, il personaggio di Lloyd Richards (Hugh Marlowe): «sarebbe ora che il pianoforte capisse che la musica non è stata scritta da lui!». In questo il film è anche una parabola di guarigione dal narcisismo raccontata attraverso l'evoluzione del personaggio di Margo che sul finire entra in contatto con la propria fragilità, rinuncia all'onnipotenza e può concepire una vita dove la felicità non risiede nel trionfo narcisistico ma nel poter vivere delle relazioni appaganti. Attraverso la rinuncia al ruolo di primadonna Margo può accedere ad un universo prima sfuocato di relazioni fatte di amicizia, lealtà, amore.
La diva Margo con il marito Bill
Eva contro Eva non è soltanto un film sul teatro e sul narcisismo, è anche e soprattutto un film che attraverso la metafora del palcoscenico e della recitazione come menzogna ci spiega come funziona l'individuo antisociale (o psicopatico) che anziché vivere una dimensione relazionale e affettiva vede nell'altro esclusivamente un mezzo per poter esercitare un dominio e raggiungere i propri scopi. Eva Harrington è incapace di provare gratitudine per le persone che hanno voluto aiutarla e il suo mondo affettivo rimane sepolto in profondità dietro la maschera della sua recitazione. Dominata da una fame smisurata di affermazione si appresta a divorare le sue vittime per appropriarsi, come nel cannibalismo, del loro potere. Fino a che alla fine la sua spregiudicatezza le si ritorcerà contro in un gioco di specchi. Come nei trattati di psichiatria e psicoanalisi che spiegano la psicopatia (si veda per esempio Nancy McWilliams ne La Diagnosi Psicoanalitica), scopriamo alla fine un'infanzia infelice e vediamo un disperato tentativo di evitare emozioni autentiche di sofferenza.
Eva viene sorpresa mentre prova il vestito di Margo
Alla stregua di ogni grande artista Mankiewicz sembra conoscere da vicino i meccanismi che regolano l'accadere psichico, tanto che nel ritratto del suo personaggio sembra voler anche raccontare di come nell'agire psicopatico entri spesso in gioco il meccanismo della dissociazione psichica: a volte la protagonista si sente «come sotto l'effetto di un anestetico» e dice cose che non aveva mai pensato, non riuscendo a «distinguere la realtà dal sogno».
Grazie alla bellissima sceneggiatura, sempre di Mankiewicz, intravvediamo nel personaggio di Eva la tragica mancanza di un reale amore per sé e per l'altro, l'assenza di reale considerazione, attenzione e affetto che caratterizza la storia delle persone antisociali. Quando per esempio ella afferma: «io sono la copia alla quale ci si rivolge quando manca l'originale» sentiamo che queste parole, seppur pronunciate per ingannare attraverso una finta umiltà, rispecchiano un reale sentimento di mancanza di valore. Così anche Eva, da personaggio unidimensionale e da cattiva per eccellenza acquista una sua umanità.
La pellicola di Mankiewicz è stata definita da Jenny Stevens in un articolo sul Guardian “un perfetto film femminista”. Molly Haskell stessa, critica cinematografica femminista, considera Eva contro Eva una testimonianza dell'ammirazione e del fascino (forse, aggiungerei, della soggezione) provati dal regista nei confronti del femminile. I personaggi maschili del film sembrano in effetti fare da sfondo a una vicenda in cui sono quasi esclusivamente le donne a determinare gli eventi e a governarli. Esemplificativo a tale riguardo è il dialogo fra il personaggio di Lloyd Richards, importante autore di lavori teatrali, e la moglie Karen.
Karen: Lloyd senti, non penserai neanche lontanamente di dare a quella vipera la parte di Cora?!
Lloyd: Amore, non ho promesso niente a Eva. Ho detto che le avrei volentieri dato la parte ma che c'erano alcune difficoltà.
Karen: E cioè?
Lloyd: Tu, per esempio. Le ho detto che ti avevo promesso di darla a Margo e non volevo cambiare nulla senza la tua approvazione.
Karen: Bravissimo. Sei stato grande. Tutte le richieste di Eva passale senz'altro a me.
Eva viene sorpresa mentre prova il vestito di Margo
Karen rappresenta a mio parere, qui come altrove, il principio moderatore dell'Io a fronte delle richieste istintuali dell'Es. Essa cerca di arginare di volta in volta l'ingenuità del marito, il narcisismo di Margo, la cattiveria di Eva. Le primitive forze pulsionali fatte di odio, rivalità, invidia e avidità possono essere contenute da un esame di realtà ancorato ad una visione del bene e ad un senso di giustizia il quale tuttavia non riesce, o non può, controllare un diverso ordine di giustizia, la Némesi, che vestirà i panni di Addison DeWitt...
Keywords
#cinema e psicoanalisi #divismo #manipolazione #narcisismo #psicopatia
Bibliografia
Haskell, M. (2016) From Reverence to Rape: the Treatment of Women in the Movies. The University of Chicago Press, Chicago.
McWilliams, N. (1994) La Diagnosi Psicoanalitica. Astrolabio, Roma 1999.
Pacilio, L. (1999) Eva contro Eva. https://www.spietati.it/eva-contro-eva/ Consultato il 19/4/2024
Stevens, J. (2019) All about Eve is a Perfect Feminist Film – How did the Play Get it so Wrong?
https://www.theguardian.com/film/2019/feb/19/all-about-eve-perfect-feminist-film-play-the-favourite Consultato il 19/4/2024