Processo formativo: desiderio di appartenenza societaria, Elena Leverone
Processo formativo, passione, linguaggio scientifico, teoria, tecnica, emozioni, esperienza, desiderio. Parole chiavi che attraversano passaggi, sviluppi, interruzioni, timori, ansie, fatica, costruzione identitaria formativa-professionale e l’interrogazione che la sostanzia: “come si diventerà psicoterapeuti psicoanalitici?”
Questo contributo non vuole essere una pedissequa e mera elencazione di adempimenti istituzionali, ma ripercorrendo il nastro della memoria proverà a ritrovare ciò che ha significato, nello specifico della mia personale esperienza, il senso e la complessità del processo formativo, la vivezza delle difficoltà, la caduta delle idealizzazioni e infine lo sviluppo di una motivazione sempre più radicata nella ricerca della progettualità in divenire.
IL PERCHÉ
Ogni qualvolta si sceglie, qualcosa rimane fuori, uno scarto, una mancanza, un immaginario che si riflette nella scelta reale e concreta. Un incontro-scontro tra “ragione e sentimento” e riprendendo il titolo del celebre romanzo di Jane Austen si potrebbe ipotizzare una dialettica interna ed anche metaforica tra il cuore e l’intelletto. Il cuore ci indica dove vorremo dirigerci, perché vorremmo raggiungere quel luogo e solo quello, la ragione il come arrivare a ciò che desideriamo e la passione ad animare l’oggetto del nostro desiderio. Le passioni, contrariamente ad altre forme dell’affettività, come le pulsioni e le emozioni, sono inseparabili dalle loro più o meno evidenti rappresentazioni. Non esiste passione e passionalità senza alterità, senza un contesto relazionale mentale o reale e che, come anche il gioco richiede, condivisione, compartecipazione, orizzonte di valori e regole comuni, cosicché anche il giocare e l’essere giocati all’insegna del processo formativo ha la sua valenza emotiva.
Cortocircuito di contrari, la passione è insieme passività e attività: nella passione ci si consegna a qualcosa che si avverte profondamente sovrastante e irresistibile e per una certa suggestione si risponde a una Chiamata e vi si replica con un coinvolgimento generale delle nostre energie. È un agire che quasi sempre non conosce né orari, né vacanze, né prudenze. Anche quando pare dormiente la passione è instancabilmente all’opera e il più delle volte ci sorprende, ci smarrisce e invano cerchiamo di assegnarle uno spazio e una funzione entro un’esperienza definita e strutturata. Si pensi infine alla passione come scelta avvertita, come svolta di pensabilità formativa, come perseguimento ostinato di un determinato obiettivo.
Può quindi la passione sostenere l’oneroso e lungo processo formativo degli anni di specializzazione? Personalmente non posso che rispondere affermativamente.
In effetti la passione non esiste in sé propriamente, ma reclama un referente, un interlocutore, diversamente rimane claudicante, autoreferenziale, chiusa nel suo narcisismo solipsistico.
La mia passione per la psicoanalisi ha contraddistinto e tracciato un suo percorso, inizialmente esistenziale e poi formativo.
Il perché della mia scelta porta con sé la bontà di una mia prima analisi in un’età giovanile e di una successiva formazione accademica di carattere pedagogico. Entrambe le esperienze hanno prodotto in me un interesse vivo per lo studio psicoanalitico, una motivazione tenace nel perseguirne il percorso e il chiaro-scuro di strade inizialmente sconosciute. Penso allo studio di teorie, autori, interconnessioni teorico-cliniche non facilmente digeribili sia dalla mente, sia dal proprio modo d’essere che inizialmente si scontra con un’idealizzazione professionale, una ricerca di adeguarsi alle richieste di una certa neutralità analitica perseguita, ma altrettanto addensata dal proprio temperamento e dalla propria sensibilità. Si pensi a Bollas che ha indicato nel titolo di un suo lavoro “Essere un carattere”, quella certa peculiarità psichica soggettiva nel rispondere ad una cruciale domanda: qual è l’impatto degli oggetti sul Sé? Non penso solo ad oggetti “interni”, ossia a rappresentazioni del mondo e delle persone reali che interiorizziamo e che influenzano il nostro modo di essere e di agire, bensì e particolarmente anche ad oggetti fisici, concreti, che investiamo di significato e che utilizziamo e ri-utilizziamo per definirci nel mondo. Oggetti come contenitori di esperienze nei quali lasciamo parti di noi, che ci interrogano così: “cosa accade e quale processo trasformativo nella formazione si delinea quando riprendiamo e rimoduliamo quelle esperienze?”
Credo che a livello inconscio la forza di questi passaggi, come anche del processo formativo di specializzazione, consistano nella capacità di riattivare forme implicite e originarie dell’essere, del pensare e del relazionarsi. In questo modo l’originario fornisce modelli comportamentali assimilabili dall’Io che diverranno poi suoi inconsapevoli paradigmi relazionali e cognitivi. Questi modelli, dunque, non dipendono dalla corretta rappresentazione che il soggetto si farà dell’oggetto in virtù di un’adeguata categorizzazione concettuale, bensì prendono piuttosto vita dall’incontro con l’oggetto, ossia dalla relazione che si instaura tra soggetto e oggetto, in un certo modo avvicinabile al giudizio riflettente proposto da Immanuel Kant nella sua celebre Critica del giudizio. In essa Kant distingue questa forma di giudizio, detto appunto “riflettente,” differenziandolo dal giudizio “determinante,” evidente ne La critica della ragion Pura e ancor più in generale, nel nostro modo di esperire l’oggetto, ricollegabile per pensabilità in questo contributo al processo formativo. Quest’ultimo non emergerà e ruoterà primariamente intorno ad una categoria concettuale esistente a priori, bensì affiorerà in ragione dell’effetto che l’oggetto stimola nel soggetto, il quale rifletterà come in uno specchio, la realtà interiore su quella esteriore. Il giudizio riflettente non è propriamente e soltanto un giudizio conoscitivo, perché prima ancora di far luce sulle proprietà dell’oggetto e sul nostro modo di conoscerlo, esso ci permetterà anche di coglierne in forma riflessa la finalità che portiamo dentro di noi. Tale finalità in Bollas è la ricerca di un senso di integrità che sappia raccogliere le diverse parti che compongono il nostro Sé e conferirgli un senso unitario. Senso unitario puramente illusorio ma del quale l’essere umano ha urgenza e necessità di significazione, che sembra palesarsi quando si rivela nel nostro personale idioma.
Ed è con questo singolare e specifico idioma che si attraversa l’inizio, i passaggi e il processo formativo degli anni di specializzazione.
IL COME
Per ogni esperienza ci sono inizi sconosciuti: per un amore, per un progetto professionale, per la costruzione identitaria soggettiva e sociale, per la necessità sempre presente di essere visti, accolti, riconosciuti, per l’urgenza di corrispondere alle aspettative del contesto e delle relazioni che lo strutturano. Per questo e per tanto altro crescere nell’accezione del termine, è complicato, complesso, entusiasmante, gratificante, ma al contempo anche frustrante, deludente e insufficiente. Chi si sente arrivato, chi si sente spaesato, chi si sente osservatore silenzioso, chi avverte quel certo malessere del non chiaro, delle viscosità delle relazioni di una comunità specifica, per la quale il desiderio di farne parte ne ha mosso l’azione e la passione e ne ha investito il movimento. Funamboli sulla corda, in bilico tra la forza dell’ipertrofia dell’Io e la fragilità delle proprie mancanze, attraversiamo le tante esperienze che compongono il nostro viaggio. Attivi o passivi, silenziosi o grandiosi, inadeguati o potenti, ognuno di noi fa i conti con le svariate risposte difensive del suo sviluppo di personalità, col suo temperamento e con le sovrastrutture ideologiche di pensiero di quella certa seduzione narcisistica di carattere analitico.
Nelle grandi maglie di queste dimensioni esistenziali credo che ci si possa ritrovare nell’avvio del percorso di specializzazione: dagli iniziali colloqui di selezione, alla strutturazione dei Seminari, alla condivisione col proprio gruppo classe, alle tante supervisioni dei casi clinici e principalmente all’inizio della propria analisi personale a cadenza tri-settimanale, calata anche nell’immaginario narrativo e nelle rappresentazioni cinematografiche e anche dalla funzione simbolica e fattiva delle sedute sulla fantasticata chaise-longue.
Tutti questi elementi andrebbero specificatamente approfonditi singolarmente, perché ognuno di essi porta al suo interno una forza propulsiva e rivoluzionaria di trasformazione soggettiva, culturale, sociale e profondamente psichica che, inserita nel processo formativo, integra, raschia, aggiunge, confonde, illumina, delude, affatica ed entusiasma i lunghi anni di training.
Nell’esperienza della quale accennavo precedentemente del perché della mia scelta psicoanalitica, sempre Bollas ci fa riflettere che non contano le proprietà dell’oggetto in sé, quanto “lo spazio intermedio”, nel quale avviene il loro incontro che è in grado di stimolare una particolare rivelazione del Sé che l’oggetto non contiene, ma per il quale appare non di meno determinante. Nel pensiero di Bollas tutti viviamo tra infiniti oggetti che illuminano il nostro vivere e che hanno il potere di fare luce sul nostro mondo interiore ed esteriore ed è anche ciò che Winnicott ha definito lo “spazio intermedio “o “la terza area”: il luogo in cui il soggetto incontra quel tipo di esperienza e alla quale conferirà un significato proprio nel momento in cui avverrà una reciprocità di confronto e produrrà, nella possibilità soggettiva, una trasformazione interiore, nello specifico, quella a cui penso in questo scritto è quella di carattere formativo.
Un setting esterno predispone a un setting interno, un setting interno favorisce, negli anni di formazione, una necessaria e indispensabile modularità di intervento nelle situazioni cliniche che si incontreranno nel corso della specializzazione. Ritorno con la memoria agli anni di tirocinio nei Centri di Salute Mentale, all’avvio della libera professione dopo il conseguimento del diploma e al consolidamento della stessa. I primi mi riportano alle mente le più intense e articolate situazioni cliniche nei CSM, la presa in carico di pazienti gravi, l’ansia, il timore di non riuscire a far fronte in modo adeguato alle tante e direi anche suggestive situazioni che mi si presentavano. Aneddoti e ricordi sono molti e diversificati e ciò rende l’esperienza di tirocinio e di lavoro clinico sul campo un bagaglio esperienziale proficuo e prezioso che non si manifesta solo in un setting esterno idealizzato che, è tra l’altro, oggettivamente impossibile da ritrovare nelle stanze del Servizio Pubblico. Al contrario i processi clinici istituzionali si realizzano tramite setting e contesti diversificati che acutizzano i sensi, amplificano la memoria teorica e arricchiscono il lavoro clinico di pensabilità anche linguistiche unite alla complessità della teoria e dei suoi avanzamenti attuali. È pur vero che negli anni della formazione ci si appresta a un sicuro dizionario teorico-tecnico che ci accompagnerà nella nostra attività, ma col paziente borderline o col paziente psicotico non si entra in contatto con lo psicanalese, come scrive Bolognini, bensì con un linguaggio accessibile a quel soggetto, alla sua visione del mondo ed anche alla sua possibilità di comprendere e sentirsi compreso in quella specifica esperienza terapeutica. Personalmente alcune delle esperienze di supervisione mi hanno insegnato a intravedere la semplicità della complessità clinica e viceversa nelle evidenti e traumatiche situazioni individuali, scarnificando tutto un bagaglio linguistico teorico-clinico, così necessario nella nostra preparazione specialistica, ma altrettanto ingombrante nel lavoro di terapia con i pazienti. Non tutto è interpretazione, non tutto è metafora, analogia o silenzio, non tutto è parola, spiegazione o soluzione. Vuoto, senso di impotenza e inadeguatezza, possono essere alcune delle aree con cui ci si scontra nel lavoro clinico, viceversa, onnipotenza, idealizzazione, grandiosità sono alcuni altri dei territori psichici con i quali patteggiare la tenuta non soltanto del paziente, ma anche quella della nostra organizzazione di personalità, la nostra coesione identitaria, la qualità dei nostri meccanismi di difesa e del nostro esame di realtà concreta o fantasmatica.
Ecco perché prima ancora di poter essere sufficientemente in grado di aiutare chi ci sta di fronte è necessario e indispensabile affrontare, attraverso la propria analisi personale luce e ombre della nostra psiche, sfumature caleidoscopiche della nostra coloritura emotiva e la caduta di idealizzazioni potenti quanto le svalorizzazioni profonde del nostro Sé e del nostro essere terapeuti. Aggiungo inoltre che gli anni della pandemia hanno scardinato i lunghi assetti psicoterapici ai quali eravamo affezionati, invece la terapia on line, le piattaforme velocizzate e direzionate alla ricerca di un aiuto psicologico per le tante richieste agli infiniti bisogni individuali, hanno modificato e reso necessario confrontarsi con un mutamento sociale e collettivo che vede noi terapeuti impegnati in un ulteriore processo di passaggi, non sempre facilmente assimilabili nei tempi e nei modi di pensare la psicoterapia psicoanalitica. Ma anche nelle situazioni estreme di emergenza sociale la comprensione terapeutica è sempre orientata alla storia personale del paziente che non dovrà mai trascurare quella collettiva in cui si è svolta e che, come direbbe certamente Freud, dalle ferite narcisistiche dell’umanità e delle sue scoperte rivoluzionarie, ci si è resi conto di quanto poco padroni siamo in casa nostra. Si pensi alla detronizzazione della terra al centro dell’universo, alla scoperta darwiniana che ha spodestato lo scettro alla nostra specie, alla scoperta dell’inconscio, che ci ha reso non mondi isolati ma sistemi in connessione. Viceversa l’autarchia di se stessi impoverisce e svuota il significativo mondo di relazioni del quale siamo intessuti e nella nostra vita personale e nella professione di terapeuti, che ha necessità e bisogno del confronto arricchente con i colleghi, della loro esperienza clinica per maturare prospettive di comparazione, criticità di visioni differenti e ampliamenti di osservazione nei cambiamenti delle nuova psicopatologie.
DESIDERIO E APPARTENENZA
Desiderio deriva dal latino e si compone dalla preposizione “de” che ha un’accezione privativa e da sidus che significa letteralmente stella, inoltre il prefisso “de” ha anche valore di origine e di provenienza. Due significati per desiderare: il primo si consegna alla mancanza e cioè avvertire la mancanza delle stelle, il secondo si colloca all’origine e quindi il termine si predispone a un altro significato, che è l’essere proveniente dalle stelle. Un ulteriore piccolo inciso è dato da cosa differenzia il bisogno dal desiderio. Il bisogno implica il ritorno a uno stato precedente a quello di una tensione attraverso una scarica, il desiderio invece, ha una sua visione di qualità costitutiva dell’esperienza emotiva, non si sottrae all’incertezza, al dubbio ma si muove nel mondo con curiosità, interesse e creatività. Inoltre, il desiderio ha un suo legame connesso alla storia, alla memoria, agli affetti soggettivi e anche alla sfera assiologica, che insieme a queste dimensioni si lega alla fantasia e non sempre è concretizzabile in un oggetto immediato.
L’appartenenza, a sua volta è un sentimento, è il senso di inclusione e di percezione del nostro riconoscimento in un determinato contesto. Ci sentiamo appartenenti quando percepiamo di essere accettati, quando le nostre differenze individuali sono riconosciute e tollerate, quando ci sentiamo connessi con gli altri, ma soprattutto è quel valore che si avverte se si fa parte di qualcosa come di una progettualità d’insieme. Sentirsi parte di è uno dei bisogni fondamentali di ogni essere umano: si radica nella necessità dell’attaccamento affettivo che ognuno di noi sperimenta con gratificazione emotiva o frustrazione nel durante della sua crescita e nelle sue relazioni significativamente privilegiate. Inoltre, credo sia la motivazione conscia e inconscia all’appartenenza e alle dinamiche che questa motivazione attiva a farne il volano di un’evoluzione positiva della propria esistenza, piuttosto che un’appartenenza come elemento di distruttività. Si pensi al piacere di aderire ad un progetto di qualità, piuttosto che la mera adesione ad un gruppo fortemente ideologizzato, dannoso e ostile.
Non ultimo è il concetto d’identità individuale che si compone anche del legame sociale, all’interno del quale trova il suo riconoscimento e che a sua volta produce un impegno verso un gruppo in seno ad un’Istituzione definita da codici e linguaggi comuni.
Desiderio e appartenenza sono stati i cardini del mio percorso formativo nel quale l’identità individuale si è legata all’identità professionale in emersione e ciò ne ha costituito un nuovo insieme di aspetti del Sé, soggettivi e professionali. Naturalmente il concetto di Sé non coincide con quello di identità, ma in alcuni tratti si possono trovare motivi di assimilazione e sovrapposizione.
Inoltre, il desiderio ha alimentato la mia scelta e mi ha sostenuta nei diversi passaggi degli anni di specializzazione, orientandomi nei momenti onerosi dello studio e della formazione. Ricordo invece con nostalgia e piacere i dolcetti al centro tavolo nelle pause dei Seminari con il mio gruppo- classe, un momento importante giocoso e aggregante.
L’appartenenza ha tracciato il suo solco nel durante del processo formativo e si è manifestata come espressione di una scelta personale maturata durante lo sviluppo della mia identità professionale sempre in divenire.
La motivazione ad associarmi, infine, è nata in ragione del percorso personale e specialistico che in questo contributo ho cercato di delineare, chiarendone la dimensione particolarmente trasformativa, molte volte onerosa e altrettanto arricchente.
Dopo il diploma, l’esperienza della frequentazione con i colleghi del Centro di Consultazione della mia Sezione Regionale Campania- Puglia, le attività scientifiche della Società e la sua apertura al dibattito e al dialogo sulle tante problematicità contemporanee che nella clinica si evidenziano in patologie sempre più complesse, hanno fatto sorgere in me il desiderio di associarmi, interrogandomi con franchezza sulle mie motivazioni personali e sulla formalizzazione della mia richiesta.
Ho così realizzato in me una risposta che sento autentica nella sua espressione e che si esplicita in ciò che prima ho definito sentirsi parte di una storia, di una cultura, di un tessuto relazionale, professionale e societario. Più concretamente sentirsi parte di una Società che ho imparato a conoscere e ad apprezzare a contatto con i docenti, i supervisori e frequentando le tante attività divulgative proposte, che mi hanno fatto e mi fanno sentire parte di un percorso in trasformazione nella partecipazione alla vita della comunità scientifica. Tutto ciò all’insegna di quella liberà intellettuale che anima e produce, anche nelle differenze di prospettive quella clinica di frontiera che, a mio parere, nutre il passato ma apre al futuro.
Infine, al termine di questo mio contributo, desidero concludere con un pensiero di Giorgio Parisi, Nobel per la Fisica nel 2021, proponendo la medesima riflessione che concluse la mia lettera di presentazione per l’associatura e che, ad oggi, rimane ciò che più rappresenta il mio sentire nel durante degli anni di specializzazione.
Si legge “In un volo di storni -Le meraviglie dei sistemi complessi” -:
“In fisica e in matematica è impressionante lo sforzo per capire una cosa nuova per la prima volta e la semplicità e naturalezza del risultato una volta che i vari passaggi sono stati compiuti. Nel prodotto finito, nelle scienze come in poesia, non c’è traccia della fatica del processo creativo e dei dubbi e delle esitazioni che lo accompagnano”
Bibliografia
Bolognini S., Nicoli L., Freud e il mondo che cambia- Psicoanalisi del presente e dei suoi guai-
Enrico Damiani Editore, Bologna, 2022.
Bolognini S., L’empatia psicoanalitica, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
Bollas C., (1992), Essere un carattere Tr. it. Borla, Roma, 2007.
Bollas C., (1999), Il mistero delle cos. La Psicoanalisi come forma di conoscenza.Tr. it. Raffaello Cortina, 2001, Milano.
Freud S., L’avvenire di un’illusione, (1927). OSF, Vol.10. Bollati Boringhieri, 20010, Torino.
Kant I., Critica della ragion pura, (1781). Economica Laterza, 20019, Bari.
Kant I., Critica del giudizio, (1790). Economica Laterza,20019, Bari.
Winnicott, D.W. (1965), Sviluppo affettivo e ambiente. Tr. it. Armando,1970, Roma.
Winnicott, D.W. (1971), Gioco e realtà. Tr.it. Armando, 2005, Roma.
Winnicott, D. W. (1971) “La creatività e le sue origini”. Tr. it. In Gioco e realtà. Armando, 2005, Roma, pp. 109-138.