Lo psicoanalista: un artigiano creativo nel mondo contemporaneo, Antonio De Rosa

La scelta di questo argomento nasce da alcune riflessioni stimolate dalla discussione, in seno al Collegio dei Docenti di Roma, sul tema” Psicoanalisi e Arte”.
Quali analogie ci sono tra artista e psicoanalista che, pur avendo come elemento condiviso l’inconscio, si muovono su due poli diversi ma accomunati dalla presenza di elementi che si configurano come creatività?
L’artista può esprimere nelle proprie opere contenuti di cui spesso può essere alquanto inconsapevole laddove lo psicoanalista è portato a sperimentare, attraverso la comprensione-intuizione, la possibilità di decodificare e interpretare quanto l’artista ha rappresentato.

Ad esempio Rosa Romano Toscani nel suo articolo nell’ultimo numero della rivista Aracne scrive:
Osservando il “Tondo Doni” di Michelangelo, la circolarità delle tre figure unite e distinte sembra di potere raffigurare la concezione edipica teorizzata da Freud, di quell’edipo che permette all’infante il passaggio dal Materno al Paterno.
Passaggio fisiologico per una crescita armoniosa espresso da Michelangelo nella figura facilitante della madre, Maria, che porge il figlio al padre (putativo), Giuseppe
”.

Personalmente sono portato a percepire lo psicoanalista come un artigiano della psiche che lavora nella sua bottega con la cassetta dei propri attrezzi, vuoi per riparare vuoi per creare ex novo
E lo fa con l’umiltà che nasce dalla consapevolezza del limite e dalla capacità a tollerare molte frustrazioni che induce a rifuggire da ogni forma di superiorità o presunzione.
Anche la formazione avviene “a bottega”: l’apprendistato con la propria analisi o l’andare a bottega da altri Maestri (supervisioni) o confrontarsi con altri apprendisti e scambiarsi i segreti del proprio mestiere ma anche tutte le difficoltà.
E siamo rimasti anche in pochi perché andare a bottega è faticoso e comporta molti sacrifici.
Buona parte della formazione psicoterapeutica in senso ampio è alquanto mutata e alcune Scuole non analitiche impostano il modello terapeutico in un’ottica positivistica della sofferenza umana, che può divenire un luogo della non introspezione.
Da alcuni racconti si percepisce di ritrovarsi in un rapporto medico paziente, come descritto da Pierre Schneider, e cioè un modello tecnico di servizio in cui c’è un “oggetto da riparare”.
Sicuramente c’è molta diversità con le nostre botteghe artigianali.

Siamo quegli artigiani che come sostiene Pellizzari si “ingegnano costruendo il proprio sapere, oltre che sui libri, sull’esperienza e sulla necessità di improvvisare di fronte ad una richiesta diversa e mutevole che non si lascia ridurre a moduli standardizzati”.
Non a caso parla “di mestiere che è la capacità, che viene maturandosi con l’esperienza, di essere tutt’uno con gli strumenti della propria funzione terapeutica in modo naturale, fisico, istintivo. Non il falso Sè della professionalità ma la naturalezza del mestiere che diviene parte integrante di una persona”.
Ed è interessante la sua analogia con un corso di nuoto. Egli sostiene che prima di imparare la tecnica è necessario riscoprire la propria “acquaticità”, cioè la capacità innata di essere a proprio agio nell’acqua prima di apprendere le tecniche del nuoto. Lo stesso avviene con la psicoterapia. Trovare la propria acquaticità terapeutica che è inizialmente indipendente da ogni conoscenza teorica.
E a mio avviso il primo fondamentale passo per acquisire la propria acquaticità è la propria analisi personale.
Molti sono gli strumenti nella nostra cassetta e vorrei soffermarmi su alcuni di essi, quali l’ascolto-intuizione, e su come sia difficile utilizzarli nel mondo di oggi di fronte a diverse forme di sofferenza umana.
Siamo testimoni oggi di nuovi malesseri, di stili di vita caratterizzati spesso da una frenetica corsa verso l’apparenza per colmare i vuoti. Non solo , ma siamo testimoni anche dei ritmi frenetici del quotidiano o di alcuni contesti sociali all’insegna dell’apparire o delle comunicazioni virtuali attraverso i social; dimensioni che finiscono spesso per favorire il sorgere o il mutamento di alcune patologie.

Massimo Gramellini nella rubrica Il Caffè sul Corriere della Sera scrive:” Quattromila persone in un palazzetto ad ascoltare un guru indiano sono l’elefante nella stanza. Quella folla variegatissima e non liquidabile con una smorfia è il sintomo di un bisogno generato da un malessere non solo economico ma esistenziale. L’autore prosegue e termina: “...Bisognerebbe ricordare che la favola più famosa del Novecento (il Piccolo Principe) lo è diventata per una frase: l’essenziale è invisibile agli occhi”.

I nostri specializzandi riportano spesso esperienze “difficili”, seguite nei tirocini istituzionali, che esprimono la complessità di queste nuove patologie: malesseri poco decifrabili in un contesto che si oppone alla pensabilità.
L’area del limite – o talora della sua assenza nell’epoca attuale – esprime nuove costellazioni psicopatologiche, fondate su un profondo senso di vacuità interiore e cristallizzate in un’assenza di progettualità interna. Aumentano i “pazienti difficili da raggiungere”, molto in contatto con la realtà esterna e poco con la realtà soggettiva del proprio inconscio.

Franco De Masi (2012) afferma: “Non è tanto, infatti, la gravità sintomatologica a mettere in scacco l’analista contemporaneo – gravità a cui non necessariamente corrisponde una difficoltà nel trattamento – quanto l’indisposizione pervasiva e generalizzata di un sistema inconscio in grado di simbolizzare e fornire una rappresentazione agli stati emotivi e mentali”.
Così hanno preso corpo la “Clinica del vuoto” di Recalcati (2004), le “Passioni tristi” di Benasayag e Schmit (2003) e le “Patologie dell’immediatezza” di Bin Kimura (2005).
In questo Vuoto domina il narcisismo, dimensione non nuova ma amplificata dalle istanze individualiste e globalizzanti del contesto sociale.
In questo scenario emerge la difficoltà dell’ascolto analitico che può disperdersi in varie direzioni, specie quando il discorso dell’altro ha una scarna configurazione ed una carente tonalità affettiva, intriso talora da un eccesso di realtà.

L’ascolto psicoanalitico è quel canale privilegiato che consente di accedere alla dimensione dell’inconscio.
Partendo da Freud, che sottolineava l’importanza dell’attenzione fluttuante, nella pratica clinica, sono via via emersi altri elementi caratterizzanti l’ascolto, come i processi di identificazione, di controtransfert e l’intuizione.
La sensibilità dell’ascolto potenzialmente consente di conoscere alcune caratteristiche di aree patologiche e di creare relazioni trasformative, laddove il terapeuta sia in grado di distinguere le reazioni di controtransfert da quelle di contro identificazione proiettiva.
Infatti la disponibilità dell’analista a farsi coinvolgere in dinamiche così precoci ha, secondo i Botella (2013), come contraltare la capacità interna di contenere e non farsi travolgere dal contenuto spesso espulsivo e violento delle identificazioni proiettive.
Altro elemento particolare è l’intuizione. Per Grinberg (1996), è la capacità di captare le emozioni. Secondo Bion (1970), “i fatti psicoanalitici sono intuibili se il proprio apparato di pensiero è disponibile per questa condizione”.
È molta importanza viene data da tutti gli Autori alla condizione mentale che agevola il lavoro della intuizione: a partire dalla “attenzione fluttuante” raccomandata da Freud, fino alla tecnica di sospensione temporanea di memoria, desiderio e comprensione, suggerita da Bion.
Sono accorgimenti che consentono al terapeuta di “diminuire temporaneamente l’attività dell’Io, per far funzionare più liberamente il Sé” (Ferretti, 1984); alternando così l’uso della funzione differenziante del primo, con l’ascolto dei movimenti del Sé che consentono di accostarci al mondo pre-simbolico dell’interlocutore.

Bolognini (2019) amplia il significato di questo concetto e mette in relazione l’attivazione dell’intuizione con la capacità di consultare gli oggetti interni da parte dell’Io centrale, potendo in questo modo attingere alla creatività e alla ricchezza di queste fonti interne e delle loro diverse prospettive.

Nel mio lavoro istituzionale in un Servizio di Psicoterapia universitario mi sono ritrovato con pazienti difficili, talora studenti universitari bloccati nel loro percorso di studio: sedute stagnanti, cariche di una atmosfera di impotenza e di stasi.
Oggi col senno di poi mi ritrovo a pensare come, questa funzione dell’intuizione, talora consapevolizzata dopo, mi abbia molto aiutato e sia stata una strada molto preziosa quando le coordinate classiche dell’ascolto perdevano la propria direzionalità.
Spesso il paziente ci riporta sul registro del concreto, fitto di domande sul da farsi e, talora, molti di noi possono sentirsi infastiditi, pressati. Eppure, il cogliere anche questi discorsi può aprire una finestra nel mondo interno dell’altro, specie se nella nostra mente fa capolino un dettaglio, un’intuizione, un’immagine, che possono favorire spiragli di una iniziale costruzione analitica. Non è raro, infatti, che dopo sedute che appaiono vuote, quasi inutili, intrise di difficoltà a decifrare il movimento transfert-controtransfert, il particolare ascolto psicoanalitico, di cui parlavo poc’anzi, porta ad integrare i fili della trama e dell’ordito, in una processualità interna tra terapeuta e paziente.
Non c’è mai un telaio già predisposto, ma il terapeuta è l’artigiano che, in queste sofferenze primitive del Sé, inizia a costruire l’intelaiatura. Elemento portante è, allora, la qualità di un ascolto che dovrebbe avere la capacità intrinseca di poter creare un contenimento attraverso una mente che, appunto, contiene l’inconscio non accessibile (ma un inconscio pur sempre presente) nel tentativo di restituire al paziente una consistenza di soggetto, ma anche ad interiorizzare il significato del setting da cui spesso si tende a prendere le distanze. E, infatti, in alcuni casi di destrutturazione, la nascita del setting è il punto di arrivo di un percorso, una tappa di un nuovo punto di partenza (De Rosa 2017).
La creatività dell’artigiano-terapeuta si esprime attraverso la curiosità, la possibilità di accordare e armonizzare le diverse note del discorso, anche quelle stonate, per dare loro significato sintonizzandosi così su diversi registri comunicativi (anche di elementi parziali cui dare senso), con l’evenienza di avvicinarsi sempre di più ad elementi del preconscio.

Anche il silenzio spesso è un ascolto carico di comunicazione, non dunque inteso come difesa o messa in atto.
Un silenzio che permette di sintonizzarsi a ridosso di aree molto primitive e regredite, che passi cioè, come sostiene Francesco Pozzi (2005), attraverso la tolleranza dei contenuti aggressivi del paziente, l’individuazione delle comunicazioni prevalentemente non verbali e la sensorialità.
La modalità di porsi, mai univoca ma personale, può mettere in moto numerosi canali di comunicazione con la possibilità che si abbozzi una relazione attraverso il formarsi di aree di condivisione interna. Condivisione che, come ricorda Bolognini (2002), non è un obiettivo predefinito, ma il raggiungimento di una capacità della coppia analitica di condividere esperienze profonde.
Spesso si tratta di aree di cui analista e paziente non sospettano di averne fatto esperienza diretta. La creatività in questi casi è la capacità di sentire e pensare insieme all’altro, stimolare una vita mentale ma anche, come ci ricorda Bolognini nel citare anche Lucio Russo (2001), attraverso “l’abbandono della difesa costituita dai parametri classici dell’analisi, e la possibilità di assumere dentro di sé nel proprio spazio interno il non analizzabile del paziente”.

In conclusione, l’ascolto in psicoterapia psicoanalitica transita attraverso questi nuovi contesti, che sono impegnativi e interessanti. Si tratta di sfide costanti ad un lavoro sempre più calato in una storia che non è ascrivibile alla storia classica della psicoanalisi, ma che trae linfa dal pensiero e dal metodo psicoanalitico per scrivere nuovi capitoli, nuove storie. Un lavoro immenso.

In base a queste considerazioni vorrei presentare brevemente caso clinico che non riguarda le patologie della contemporaneità, ma quell’area di frontiera tra l’organico e lo psichico, laddove alcuni strumenti della nostra cassetta degli attrezzi mi sono stati molto utili, ritrovando col senno di poi alcune coordinate di questa narrazione.

Nel campo delle epilessie la ricerca psicoanalitica ha sollecitato interventi di psicoterapia sia per sondare un’ipotesi psicogenetica di alcune forme cliniche sia per contenere le conseguenze emotive legate all’essere epilettico.
Freud in primis postula un modello energetico della crisi e nel suo saggio “Dostoevskij e il parricidio “(1928) sostiene che nello scrittore l’epilessia fosse solo un sintomo della sua nevrosi per cui accanto ad una epilessia organica ne esiste una affettiva, espressione della vita psichica stessa. Di conseguenza la reazione epilettica può porsi al servizio della nevrosi la cui essenza è eliminare per via somatica masse di eccitamento che non riesce a padroneggiare. Prima ancora Stekel (1911-1924) poi Pierce-Clark (1925) parla di narcisisme epileptique. Successivamente Kardiner (1932), poi Hendrick (1940) per il quale  “la crisi epilettica è un sostituto dell’ansia non vissuta”.

Una successiva linea di ricerca riguarda le più antiche fasi di sviluppo del Sè nell’ambito dell’apparato “protomentale". La natura, o l’essenza della crisi, si conferma come un qualcosa che è impossibile definire in termini puramente fisiologici o, al contrario, puramente psichici ed   in quest’ottica è possibile comprendere anche quelle situazioni in cui la crisi sembra dare corpo ad angosce catastrofiche di perdita o di annientamento del Sé (Lombardi R. e al 1984; Azzoni-Mazza,1985; Mazza e al 1988).

Un secondo filone di ricerca–intervento, non disgiunto dal primo, è legato alla possibilità di incidere sulle modalità reattive all’essere epilettico legate sia alla fenomenologia delle sue manifestazioni cliniche, repentine e ripetitive, sia per la presenza di una serie di fattori socio-culturali, che hanno determinato un pregiudizio culturale e scientifico verso questa malattia (De Rosa 1980).

Nelle manifestazioni di grande male la crisi comporta una totale perdita di sé e una non esperienza nella continuità temporo-spaziale.  Il ripetersi poi della stessa condiziona la quotidianità, che si disegna come un’esperienza di attesa di una crisi, che può divenire il punto di riferimento dell’azione quotidiana: come una minaccia che frattura la continuità dell’essere nel mondo e condiziona la progettazione nel futuro, carica di questi fantasmi d’interruzione. Come ho sostenuto in una ricerca (1995) si crea uno stile di vita all’epilessia, un’area intesa essa come nodo problematico intorno a cui convergono le difficoltà del paziente.

Maria viene inviata al Servizio di Psicoterapia dai colleghi della Clinica Neurologica. Ha 28 anni e all’età di 16 ha sofferto di crisi generalizzate primarie: improvvisa perdita di coscienza, caduta a terra e contrazioni tonico-cloniche a frequenza mensile, gradualmente scomparse. Poi ha presentato crisi parziali, assenze frequenti, connesse molto allo stato emotivo che determina molta ansia sia reattiva sia scatenante le crisi.
Già al primo incontro racconta: “Stanotte ho avuto anche degli incubi. Attraversavo una strada buia del mio quartiere, ma ero terrorizzata. Incontro una ragazza che conoscevo e abbiamo percorso la strada insieme, ma siamo circondate da un gruppo di teppisti che cercano di prenderci le cose più preziose. Io cercavo di salvare gli anelli, ma loro prendevano le catenine e poi mi sono svegliata piena di dolori”.
Produce una serie di associazioni, tra cui l’dea che io fossi una dottoressa e che questa ragazza-dottoressa la dovesse accompagnare in questo percorso pieno di pericoli, la sua analisi, cioè le sue paure. Mi dice che per il passato le era stata consigliata una psicoterapia, con una collega, ma era scettica.
Nonostante ciò, sento che la sua richiesta è pressante ma negata, quasi a tenere a bada questo bisogno dell’altro, per timore di una nuova dipendenza, come emergerà in seguito.
Concordiamo una psicoterapia psicoanalitica breve a tempo determinato, a frequenza bisettimanale, della durata di un anno solare.

Primi sei mesi
Maria si dilunga molto sullo smarrimento che la invade quando irrompono le crisi, che sospendono il senso della sua continuità nel tempo e nello spazio. Da qui la paura per gli spostamenti. Al lavoro la accompagna o la madre, che lavora in una struttura vicina, o il fidanzato, Marco.

 Anche due mesi prima al lavoro:
“ …. a un tratto mi sono sentita come un automa, in trance. Ho percepito come delle <ondate> che arrivavano alla testa e mi scuotevano il cervello con la sensazione che le gambe mi venissero meno. Sono uscita di corsa dalla stanza agitata e mi sono seduta su di un gradino delle scale. Vede questo è il mio male, queste le mie crisi. Vivo costantemente con la crisi”.
Mi comunica l’intensa emotività nel rievocare questo episodio e ne percepisco il dolore e la confusione.

Nel corso delle sedute successive parla più in dettaglio della sua storia, riferendomi principalmente la difficoltà a separarsi dalla madre. È sempre accompagnata da qualcuno, perché ha paura di stare da sola e di sentirsi male. Inoltre, mi racconta che il padre, quando lei aveva ventidue anni, si è suicidato. Si sofferma poco su questo episodio tragico, come se non le appartenesse.
Il campo terapeutico è saturo del racconto dei suoi malesseri. Ma di fronte a questa barriera di parole sento che bisogna prestare ascolto e condivisione, un ascolto silenzioso.
Si sofferma poi sulla descrizione di una crisi avvenuta circa tre anni prima caratterizzata da sudore, sbandamento, offuscamento della realtà ed altre similitudini con la crisi descritta in precedenza.
Il ricordo e l’angoscia sono vividi.
L’ascolto partecipe mi aiuta a consapevolizzare dubbi e perplessità e giungere ad una prima intuizione.
La sintomatologia riferita all’epilessia non è tale. Tantomeno è presente una forma temporale tale da giustificare alcuni sintomi intesi come prodromi neurovegetativi.
Percepisco il groviglio interno somato-psichico che sarà l’area focale di questo percorso a tempo determinato, che in questa fase si contrappone al senso prolungato della cronicità.

In Maria le emozioni profonde non riescono a rappresentarsi e tendono ad esprimersi attraverso una sintomatologia che fenomenologicamente rassomiglia all’epilessia, come una strada preformata.
Le crisi di allarme-panico sono evidenti e condizionano molto la sua vita.  Teme l’irrompere della crisi epilettica e la anticipa, quasi a voler rappresentare coscientemente il fantasma della crisi stessa.
Nelle assenze c’è un’alterazione dello stato di coscienza soprattutto nella dimensione dello spazio e del tempo. È come esserci e a un tratto non esserci più, da cui un vuoto, un’assenza di esperienza che altera il senso di appartenenza al proprio corpo e alla propria realtà.
Il senso di anticipare emozionalmente una crisi può essere quello di poterla prevedere e di riempire il vuoto dell’esperienza, attraverso la certezza di un’esperienza vissuta.
Così si è creato il groviglio tra l’attesa dell’irrompere della crisi e la sua anticipazione per cui l’equilibrio è sconvolto.

In questa fase è inutile interpretare o rassicurare, ma ascoltare e offrire tutto lo spazio per esprimere queste emozioni, condividendole.
La stanza d’analisi, attraverso anche un ascolto partecipativo, svolge la funzione di contenitore di queste angosce.
Nel corso delle sedute successive Maria è leggermente più serena e inizia, con minore timore, a prendere contatto con la propria vulnerabilità. Le crisi, nel momento in cui le rivive con il terapeuta attraverso la descrizione e il racconto, non sono i tanti pezzi sparsi, ma si crea un filo conduttore che si riferisce a un unico Sé e così si può tentare di dipanare questo groviglio tra organico e psichico. Ad esempio me ne rendo maggiormente conto meglio quando divento:

Testimone di una crisi in diretta
Attraverso quelle sotterranee comunicazioni con il paziente, che caratterizzano alcuni momenti del nostro lavoro, percepisco che qualcosa di nuovo nel nostro rapporto sta accadendo. Infatti, nel quarto mese di terapia un giorno Maria viene in seduta molto agitata.
“Mi gira la testa - mi dice -, sto per svenire, mi ruota tutto intorno, ho paura”.
Io sento che in quel momento è necessaria tutta la mia fermezza nel contenere questo suo malessere, non farmi investire dallo stesso, ma comprenderlo con lei. Mi vuole come testimone di una sua crisi.

T: “mi descriva bene cosa le accade.”
Può sembrare la mia una frase inutile. Ripensandoci dopo, però, è come dirle che ci sono e la ascolto attentamente. Non è sola.
Stringe le mani, irrigidisce i muscoli mimici. Lo sguardo denota spavento ma anche bisogno di aiuto e vicinanza. Si avverte un silenzio molto carico di tensione quasi un’attesa di qualcosa che sta per accadere. Percepisco la sua angoscia, ma mi sento tranquillo.
Maria: “Mi accade questo malessere ed è intollerabile”.
T: “Sono emozioni forti”.
Maria:” Di che?”
T: “Lo dobbiamo capire insieme. È importante che si manifesti in seduta, così si comprende insieme”.
Maria: “È la crisi”.
T:” Quale?”
Maria: “Epilettica”.

Le dico che forse può fare confusione sul suo malessere e ciò che avverte non dipende dall’epilessia, ma da emozioni più profonde, cui non riesce a dare un significato. L’unico modo è esprimerle attraverso il corpo.
“Vede, mi risponde, io ho paura”.
T: “Forse è importante convivere con la sua malattia, accettarla, averne meno timore. Le crisi poi passano, ma è l’ansia che la tormenta maggiormente”.

Mi rendo conto che vivere questi sintomi in seduta è importante per Maria. Riesce in questo modo a vederli in diretta, con me testimone partecipe, ma anche con una riflessione comune. In questa fase mi viene a mente col senno del poi quando Bolognini (2020) a proposito dell’ascolto afferma che si basa anche su una risonanza integrata. Testualmente: “Si basa su attivazione di aree del Sé dell’analista, - sperabilmente meglio interconnesse tra loro di quelle del paziente - e integrativa - procura, sempre per risonanza, una migliore attivazione congiunta di aree del Sé del paziente”.

“Ho paura di essere come lui. Potrei essere sprovveduta come lui. E se perdo il controllo? Se mi viene voglia di fare la stessa cosa?”.
T: “La crisi si presta a esprimere questo suo timore di perdere il controllo”.

Successivamente mi parla della paura di somigliare al padre, sprovveduto, e di poter perdere il controllo.

Maria: “Ho paura di diventare pazza, di essere rinchiusa in posti orribili, riuscirò mai a stare bene? Non sono mai andata a trovare papà quando era ricoverato in queste cliniche, se non una sola volta quando ero piccolissima. L’ho confortato poco, ero indifferente alle sue sofferenze, non gli ho mai fatto sentire che lo amavo nonostante i suoi difetti. Solo negli ultimi tempi lo lavavo quando si sporcava e mi stupisco che non si vergognasse.

Il lavoro-collegio
Mi parla poi dell’ansia che la pervade spesso quando è al lavoro, e attraverso una serie di nessi associativi mi racconta la dolorosa storia del collegio.

A 6-7 anni, la madre la “mette” in un collegio vicino a casa, specie per accudire il padre, mentre la sorella rimane a casa.
Ricorda con molto dolore quel periodo: il desiderio di essere libera, la nostalgia di stare in casa con i suoi giochi e nell’intimità della sua stanza. Riesce a fare amicizia con altre bimbe, ma non basta.
“La notte spesso piangevo…”. Iniziamo così a mettere in relazione la prigione collegio con la prigione lavoro. Il farsi accompagnare è legato alla necessità di una continuità con l’altro senza potersi mai staccare dallo stesso. Non è la paura di avere una crisi bensì l’angoscia di rimanere da sola.
Anche questo è un altro passo in avanti di Maria. Inizia a comprendere sia pure con difficoltà come antiche emozioni condizionino il presente e come l’ansia non sia correlata solo alla paura della malattia, ma anche a situazioni di vita che possono richiamare il distacco, la solitudine e il sentirsi smarrita. Inizia così a prendere contatto con la sua storia emotiva.

Si sofferma sulla dinamica familiare, già in precedenza caratterizzata da   freddezza e ostilità tra i genitori. La madre accudiva il padre solo per un senso del dovere e mi dice poi: “In effetti, mamma non c’era per lui come non c’era per me. Era molto presente, ma a modo suo, senza calore ma con un’eccessiva protezione”.
Una sorta di messaggio di non crescita, un’impossibilità a separarsi e diventare autonomi proprio nell’età in cui si avvia il progetto della propria identità.
In realtà l’assenza di una holding materna aveva già creato dentro di lei una frattura di cui il collegio era stato l’espressione più evidente. Un abbandono senza senso. Nutre rabbia verso la madre, artefice di questa scelta, ma il sentirsene dipendente non le consente di poterla vivere ed elaborare. La crisi copre una difficoltà preesistente, che non riusciva a vedere.

Seduta dello sguardo (alla fine dei secondi sei mesi di analisi)
Durante una seduta successiva, mentre mi sta parlando si ferma e mi guarda, ma gli occhi sono nel vuoto. È un’assenza classica, semplice, cioè una breve interruzione dello stato di coscienza. “Penso di avere avuto una crisi”, mi dice ma senza essere spaventata. I nostri sguardi s’incontrano e il vedermi le rimanda una possibilità di vedersi, di non percepire l’assenza come una rottura ma come una possibilità di una continuità di sé attraverso l’altro.
Le faccio notare come sia diversa dalle altre crisi (panico) che mi descriveva.

Maria: “È vero e poi?”
Terapeuta: “Questo è un punto cruciale su cui soffermarsi insieme. Capire bene il significato delle sue crisi. Questa è un’assenza, le altre sono crisi d’ansia dovute ad altre situazioni interne”.
Maria: “Inizio a capire, e vederla negli occhi mi ha aiutato molto. Ma quando sono sola?”.
Terapeuta: “È come se io continuassi a esserci in una continuità interna con sé stessa”.

Maria ha iniziato a considerare che il groviglio, che si è creato attorno alla crisi, è la causa del suo malessere, non l’assenza di per sé, che può andare incontro anche a buoni meccanismi adattivi.
Non mi vorrei prolungare oltre per rispettare i tempi. Mi sono soffermato su questo caso in quanto col senno del poi ho ritrovato alcuni strumenti della cassetta degli attrezzi e come risultino utili nei setting differenziati, che rappresentano anche una nostra specifica prerogativa.

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