Erranza culturale e treni psicoanalitici, Rosita Lappi

L’intervento che mi è stato proposto su cultura e psicoanalisi tocca un argomento senza confini, impegnativo e appassionante. La psicoanalisi ha sempre dialogato con altre discipline perché le contiene in sé, le intreccia nelle sue esplorazioni. Storia, mito e sogno, l’uno sconfina nell’altro. La saggezza degli antichi, la letteratura e le Arti, la storia e i miti universali ci hanno dotato di infiniti mutevoli significati, un humus sedimentato nel nostro inconscio profondo. Ho pensato quindi di focalizzare il discorso su un tema che mi è congeniale, il tema dell’erranza culturale e dell’inquietudine. Un tema che è legato ai viaggi sui “treni psicoanalitici”, intesi come metafora dei viaggi intrapresi nella formazione, nella ricerca clinica e teorica e nel tragitto stesso della psicoterapia, in viaggio con il paziente, ma intesi anche fuor di metafora, considerando quanta strada noi percorriamo sulle rotaie dei treni, in questo vagare.

Pensando alla mia esperienza, penso anche a voi che mi ascoltate o leggete, e proporrò in modo retorico via via alcune domande. Ho scoperto, grazie alla lettura di scritti clinici dei nostri allievi, quanto può essere coinvolgente il rivolgersi alla seconda persona – tu/voi – che diventa protagonista e soggetto del discorso.

Il primo viaggiatore sui treni psicoanalitici fu lo stesso Freud che visitò diversi paesi, Atene, gli Stati Uniti e l’Inghilterra, e scese in Italia per ben 25 volte. In estate soggiornava a Lavarone e da lì poi scendeva, visitando musei e raccolte d’arte, a Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo, Siracusa, città mitiche culle di cultura, dove concepì i suoi scritti più celebri, il Mosè, Leonardo Da Vinci, la Gradiva. Viaggi che hanno nutrito la sua creatività e gli fecero sentire di appartenere al mondo mitico che tanto lo incantava (OSF 1991). Come lui, le motivazioni che ci guidano nei nostri viaggi è la libertà culturale, un forte sentimento di appartenenza all’umano mitico e quella particolare sensibilità che fa del ricercatore medesimo un osservatore partecipe del suo oggetto di ricerca. Con l’aprirsi di varchi, di traiettorie e di curiosità culturali, la pulsione epistemofilica (Klein M. 1957) è una grande fonte di desiderio e guida analista e paziente lungo mete ignote.

E voi? Quale sentite essere il vostro oggetto di ricerca prevalente, nel vostro vagare?

Ho parlato di treni recentemente con un mio paziente che ha la passione dei trenini, che gli hanno allietato per decenni le giornate. Ma ormai è dentro uno sconforto cupo e non si occupa più delle passioni di uomo colto e brillante, e anche la rete ferroviaria e i suoi trenini giacciono polverosi nel sottotetto, lacerti di un’infanzia perduta. Cosa può fare la psicoanalisi per lui, in questo presente funestato di perdite? Ci incontriamo nella realtà del nulla da attraversare insieme. Con il dubbio che il ricordo di un passato così brillante copra vuoti e crepe precedenti, e l’equilibrio si possa ulteriormente lacerare facendolo crollare nell’inedia patologica. Oppure spostiamo l’attenzione al clinamen, facendo fluire il discorso su aree vitali, liberando il gioco dalla soluzione mortifera in cui sta precipitando, favorendo altre soluzioni creative, pur nella morsa della tristezza. Presto, lateralmente al suo lutto esistenziale, arrivano letture e film amati, ricordi di viaggi, il piacere di prendersi un po’ in giro, un vecchio amico che gli propone di fare partite a scacchi, il figlio, che gli dedica le serate dopo cena per fare passeggiate insieme. E che lui accetta, invece di allontanare tutti.

E voi? Quali situazioni hanno dato una svolta creativa al vostro lavoro clinico in un momento difficile?

Da questo breve incipit si vede come il viaggio culturale nella dimensione psicoanalitica sia un percorso di meditazione esistenziale che sonda nel profondo del paziente e dell’analista domande talvolta inesprimibili e dolorose, che annodano l’uno e l’altro in una spirale di argomenti vitali.

I treni psicoanalitici sono stati le navette della mia preparazione specialistica e culturale, come lo è ancora per tutti voi. Salivo su vagoni traballanti, come era traballante la mia vita, di cui cercavo le “istruzioni per l’uso” (G. Perec 1978), quattro volte a settimana raggiungevo Bologna per la mia analisi, e poi i viaggi per la formazione a Roma, e i viaggi per le supervisioni e i seminari in diverse parti d’Italia. Prima dell’alta velocità, si viaggiava sulle Littorine (residuati di epoca fascista nelle linee secondarie, le vedevo che correvano sulla linea ferroviaria di fianco a casa mia), sui treni Accellerati (quasi delle tradotte con i sedili di legno), sui Diretti e Direttissimi, poi sui treni Locali, sui Rapidi, sugli Espressi, sul famoso Pendolino Settebello, e poi gli Intercity, i Regionali, gli Eurostar, e siamo ai nostri giorni con Frecciarossa, Frecciabianca e Frecciargento dell’alta velocità. Quanti treni dai nomi diversi. Erano viaggi spesso disagevoli, con ritardi di ore, affollati all’inverosimile quando non c’era il sistema delle prenotazioni obbligatorie, ma talvolta erano occasione di incontri sorprendenti, di lunghe chiacchierate con sconosciuti che diventavano nel giro di poche ore dei confidenti. E gli odori e gli afrori dell’umano così prossimo.

E a voi vengono in mente incontri di viaggio significativi?

In treno si vive una condizione di sospensione del tempo e di solitudine, ma io avevo sempre con me un libro da leggere, e se ci ripenso, mi scorre davanti la mia attuale biblioteca. Dentro il viaggio dell’analisi, le letture in treno mi facevano vivere in altri mondi, avvinghiata alle trame delle narrazioni letterarie, poetiche, artistiche e scientifiche.  Tutti noi, che abitiamo nella periferia culturale, viaggiamo molto, dal Nord, dal Centro, dal Sud e dalle Isole, per trovare occasioni di formazione. Ai tempi della mia formazione, quando non c’erano offerte scientifiche strutturate e agibili come oggi, si frequentavano i seminari dei docenti presso i loro studi, dove venivano anche invitati psicoanalisti di fama internazionale. Come tanti di noi, rispondevo ad una inquietudine culturale, un disagio che mi spingeva ad aprire varchi da dove osservare altri percorsi, altri orizzonti.

Sempre in movimento, eravamo, siamo un po’ come i Clerici Vagantes del Medioevo, studiosi e poeti errabondi che si spostavano per studiare di città in città. Seguivano e pagavano il maestro per continuare la loro formazione nelle Biblioteche dei monasteri, nelle università rinomate dell’epoca, nelle corti dei potenti. Avete presente Guglielmo di Baskerville e il suo allievo Adso da Melk, nel Il nome della Rosa di Umberto Eco (1980)? Come Adso da Melk, questi antichi studenti vestivano l’abito talare, era loro imposta la tonsura e il celibato, la vita morigerata e disadorna. Non molto dissimile dal clichè dello psicoanalista trattenuto e distante, come raccontato dal rigorismo di una certa psicoanalisi austera degli anni passati e dalle barzellette. L’inquietudine del nomadismo culturale caratterizza molti di noi psicoanalisti, per la natura stessa della motivazione ad intraprendere questo tipo di professione, che in definitiva è la necessità del continuo viaggio interiore, del divenire se stessi.

E voi? Vi siete fatti una immagine di voi stessi come psicoterapeuti psicoanalitici?

Vi sono esempi luminosi di Chierici Vaganti, mistici che intrapresero percorsi di conoscenza che ancora oggi parlano a noi contemporanei un discorso profondamente psicologico. Un anonimo mistico inglese del Trecento (2019) chiamava “Nube della non conoscenza”, la “via negativa” della conoscenza, il nulla che è il tutto di chi si apre all’ignoto. Parole che anche San Giovanni Della Croce (1500 circa), metterà nella sua poesia più nota, Noche Oscura (2006) di cui traccio alcune rime: Per possedere tutto, non possedere niente. - Per essere tutto, non essere niente. - Per giungere alla conoscenza del tutto, non sapere niente. - … Per giungere ad essere, devi passare dove non sei niente.

Bion (1972) riprese questa ricerca in tutta la sua opera, la realtà indicibile è fonte di verità, che si percorre nella espansione psichica dell’unisono con il paziente, nella de-costruzione del già saputo, la “via negativa della conoscenza”, per aprirsi a nuovi significati tra incertezze e paure. Chi ha percorso questo tragitto di conoscenza, potrà fornire una specie di viatico autentico, appassionato. Nelle sue Confessioni Sant’Agostino d’Ippona (354-430 d.C.) ripercorre le sue vicende esistenziali, che conobbero la depravazione e l’orgogliosa arroganza, nel solco di una umanissima sofferenza spirituale. È commovente la sincera riflessione sul suo dolore di cieco che cerca la luce della conoscenza, l’energia vibrante e insieme la pace dell’incontro salvifico con Dio. Le sue Confessioni inaugurano un genere letterario autobiografico in cui si narra il dialogo incessante con la propria interiorità autentica, tra tormenti, ambiguità e miserie umane, tanto da poter essere in assonanza con ogni epoca, anticipando uno spirito moderno, nelle sue contraddizioni. La sua irrequietezza spirituale include anche una componente estetica e nutritiva che rende sempre curiosi, affamati, in ascolto, mai sazi di cibo dell’anima.

Un altro curioso esempio di studente vagantes è stato Opicino De Canistris (1296-1352), che ho trovato facendo tappa in una stazione remota del tempo[1]. Opicino era un chierico e cartografo e ci parla di sé attraverso oltre 80 tavole da lui disegnate su supporti di pergamena, fatta di pelli di pecora; sono tavole dense di testi e rappresentazioni cartografiche di una originalità spiazzante e affascinante, e ci tramandano il proprio ritratto e la storia personale piena di mistero. Come vedremo, un autoritratto di parole, mappe geografiche e immagini.

Come leggere queste mappe? Con un trucco da illusionista. Facendo ruotare le carte geografiche dell’Europa, già perfettamente dettagliata e riconoscibile, appaiono altre figure. I confini marittimi, i rilievi, i contorni dei territori aderiscono perfettamente a figure umane, tra cui una bellissima figura di donna e la stessa silhouette autoritratta del chierico Opicino. Immagini figura/sfondo i cui significati sono persi in un tempo passato ormai irrecuperabile. Ma alcuni dettagli sembrano svelare un’anima piena di contrasti, e sono indizi di una autobiografia tormentata, di una ambiguità sorprendente (Lappi, 2020).

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I testi a lato delle immagini raccontano una confessione infinita di peccati e tribolazioni. “Quis sum ego?” si chiede Opicino. In questa sorta di autobiografia e di autoritratto, così spiazzante e moderno, il cartografo e chierico del trecento parla anche di noi, ci autorizza a mettere anzi in evidenza la complessa cartografia del nostro vagare, i mari da solcare, le vette impervie, le città dove smarrirsi, le strade e i porti dove infine approdare.

E voi? Avete sentito talvolta di dare forma ed immagine al vostro autoritratto? Avete talvolta rovesciato la prospettiva e scoperto nuovi accessi agli aspetti ambigui?

Personalità come Opicino sono stati all’origine del mio interesse per l’arte, praticando quella zona di confine che si chiama Art Brut, Arte Irregolare, là dove le onde sismiche della sofferenza mentale, le zone telluriche delle passioni estreme divengono atti comunicativi, arte primitiva che trae dal profondo l’irrapresentabile, il non pensato, il non rimosso, la Cosa in sé lavorata dalla creatività. Là dove l’arte è spinta vitale e ponte tra il destino traumatico e il significato.

Vi sono state anche mistiche donne, ma le donne erano escluse dalla conoscenza e dunque non vagavano, erano recluse nei conventi; chi tra loro seppe trovare una voce straordinaria (Chiara d’Assisi, Margherita Porete, Angela da Foligno, Caterina da Siena) si elevò in un’altra dimensione. Furono fatte sante, oppure, se senza mezzi e protezioni, furono perseguitate come streghe e messe al rogo. Si deve a loro se oggi si parla di “essere sè” dentro la sensazione. Le donne hanno ri-orientato la psicoanalisi, l’hanno salvata forse. Ma questo è un binario che non posso percorrere perché mi inoltrerei in un territorio che non posso qui esplorare.

Facendo un salto di secoli – uno scrittore del ‘900, Fernando Pessoa, testimoniava il suo smarrimento attraverso i suoi Eteronimi con cui firmava la complessità e la dispersione del suo mondo interiore e le sue tante identità. Nel “Il libro dell’inquietudine” (1982) il protagonista, nonché eteronimo di Pessoa, Bernardo Soares, è un impiegato che vive in solitudine e vede passare, nel suo sguardo triste, una umanità semplice e quotidiana, accompagnandola da riflessioni profonde. Incapace di vivere la vita, la racconta nelle sue contraddizioni, fino a renderla straordinaria. Il Novecento, il secolo dell’inquietudine, ci ha dato tante testimonianze letterarie ed artistiche dello stato di penosa incertezza, del tedio, del disgusto, lo spleen di Baudelaire, ma anche della ricerca esistenziale di una luce nel buio, come la infinita malinconia del pastore errante dell’Asia di Giacomo Leopardi. O lo straordinario testo di Garcia Lorca sul “duende” (2007), dove esplora le forze magiche che giocano con la nostra follia e che sono all’origine della poesia, della danza e delle arti. Come anche le ricerche antropologiche sulla musica terapeutica della taranta che cura le inquietudini del “rimorso” (Ernesto De Martino 2013). Tracce, echi che si rincorrono nel tempo come richiami lontani.

Ciascuno di noi, che ha fatto una lunga strada nella vita, volgendosi all’indietro ne ritrova le tracce. Come il mio paziente, che va sulle tracce della musica che aveva adorato, assordato dal dolore della sua perdita. E mentre noi siamo in ascolto dei pazienti, stiamo pur sempre dentro noi stessi, con i nostri pensieri che sono come un’eco dei loro, in cui hanno potuto depositare vissuti che possiamo riconoscere anche in noi, pur nella differenza. Questa specie di zona franca tra paziente e analista, che si potrebbe chiamare il terzo analitico (Ogden 1997) o spazio relazionale potenziale (Winnicott 1971), va lungo strade che si attivano nel campo della relazione emotiva, che però non si scostano mai dal centro della esperienza emotiva reale, pur muovendosi in direzioni laterali, nella nostra soggettività. Questo campo di relè attivatori mi appare come un panopticon culturale, dove tutto è visibile nella circolarità del sapere (il Web ne è un esempio attuale). Non si segue un binario rettilineo, vi sono snodi, scambi, deviazioni. Si può spigolare, traccheggiare su altre derive interessanti. Come nell’andare per mare, si getta la rete e si solleva una retata di pesci guizzanti e argentei, poi il di più o l’inutile viene scartato, resta qualche traccia da seguire, qualche dettaglio su cui possiamo approfondire le idee.

Leggere è abitare la realtà di un altro (sia persona reale, personaggio, situazione) in modo creativo, tra visione ed emozione, accettando il ‘come se’ della finzione, della immedesimazione, della mimesi. Leggere consente di calmarsi. Ci tuffiamo in un libro e ci lasciamo trascinare nel suo mondo, e leggendo prendiamo un respiro basico, lento, profondo, ci muoviamo ad un ritmo, regolando così l’emotività: espansione – discesa nel profondo – integrazione del nuovo – risalita alla superfice. Leggendo e sognando, quel piccolo centro di noi senza rumore respira, ricordate Winnicott (1089)?

Teniamo conto di quanto abbiamo bisogno, non solo di ristoro e di nutrimento culturale, ma anche di movimento fisico. Come già rilevavo in un mio intervento recente, il dispositivo tecnico dell’analisi implica una inibizione della propria fisicità. L’analista è emotivamente molto partecipante, ma fisicamente è trattenuto. Non è naturale questa rarefazione di azioni, questo attendere all’altro con discrezione, facendosi da parte. Partecipare alla ricerca scientifica e culturale ci consente di alleggerire la solitudine fisica del nostro lavoro. 

Oggi più spesso prediligo il camminare, come una flâneuse errante. Quando camminiamo, il respiro va al passo ritmico dei piedi, la mente fiorisce di pensieri, alla ricerca di presenze che ci accompagnino. La figura del flâneur è così interessante per uno psicoanalista, vagare e distrarsi nelle evanescenze mentali dell’allucinatorio, sognare le tracce del preconscio che vibrano e si annunciano, sognare quello che è sepolto nel corpo, imbrigliato nella fisicità profonda. Il termine flâneur coniato da Baudelaire indicava un conoscitore analitico del tessuto urbano, “un botanico del marciapiede” come lui si definiva, attratto dai dettagli lasciati da sconosciuti, o da un fiore nato nelle fenditure del selciato, quando emerge dalle stratificazioni sedimentate nel tempo (W. Benjamin 1955). D’altra parte il particolare ci può colpire come una deflagrazione che rimette tutto in un nuovo equilibrio di senso (R. Barthes, 1980). In un recente articolo, “La cura del dettaglio”, scritto insieme agli allievi del quarto anno di Milano e uscito sull’ultimo numero della nostra rivista Psicoterapia Psicoanalitica (2023), abbiamo rilevato i dettagli come luci di direzione che si accendono, girovagando col paziente, sul pulviscolo luminescente dell’atmosfera sensoriale della seduta.

Ma il flâneur che mi emoziona di più è Robert Walser per la nota di sintonia malinconica che mi è usuale. Walser, in un suo piccolo saggio capolavoro, La passeggiata (1019), porta a spasso le sue inquietudini in un continuo vagabondare, nel tragitto a tratti dolce e caloroso, scaldato dalle persone che incontra con le quali quasi si fonde, e per lunghi tratti nel tragitto freddo come i ricordi dolorosi della solitudine. Era nella sua catarsi di morire durante una passeggiata solitaria, riverso nella neve. Alla sua morte si troveranno in una scatola diverse centinaia di appunti scritti in una calligrafia minuscola e misteriosa, quasi indecifrabile, appunti che verranno definiti “microgrammi”, scritti su supporti cartacei casuali diversi – buste, telegrammi, cartoline, bigliettini – scritti per l’urgenza di scrivere. Una lunga serie di scrittori e di artisti “passeggiatori” come Walser, misurano i loro passi in millimetriche variazioni del loro stato emotivo interno. La passeggiata è un modo poetico di definire la seduta psicoanalitica, un’autobiografia esistenziale, in cui la condizione iniziale di solitudine, una volta accordato il passo con l’analista, si ravviva di tante voci.

E voi? Cosa potete raccontarci di questo andare al passo, degli accordi o delle discordanze di più voci, nella stanza di analisi?

Vi è un parallelo tra il lavoro dell’artista e il lavoro della cura psicoanalitica. Con i nostri pazienti intraprendiamo viaggi nelle terre della loro desolazione e confusione, intravvediamo figure mostruose o figure ammalianti, come fece nel suo tempo Opicino De Canistris; insieme sviluppiamo mappe adatte a governare il pathos, dando ordine emotivo e simbolico al loro mondo.

L’analista impegnato in questa forma di conversazione oscilla su due posizioni: sta ascoltando e osservando il paziente, ma sta anche parlando silenziosamente con se stesso della propria esperienza emotiva, e così consente al paziente di apprendere a farlo, traendone materia per la riflessione, ispirandone il pensare-come-sognare (Ogden 2016).

Tra paziente e analista vi è un continuo metabolizzare, digerire e trasformare in sogno tutte le comunicazioni che si svolgono nella stanza d’analisi. Il dialogo analitico in fondo è un parlare ordinario, di cose quotidiane, di famiglia, di lavoro, piccoli eventi, cose concrete. C’è un bellissimo libro di Pierre Michon, “Vite minuscole” (1984), che è il racconto in forma encomiastica, celebrativa quasi, di persone conosciute dallo scrittore o di cui ha sentito parlare, dell’ambiente frusto e povero, insignificante della sua infanzia, che lo scrittore eleva nel registro dell’alta letteratura. Nel nostro dedicare tanto tempo all’ascolto di persone in difficoltà, facciamo qualcosa di simile: parlandone nei seminari e scrivendone, eleviamo le vite dei nostri pazienti al livello di personaggi mitici. La potenza narrativa dona loro una esistenza al di fuori della loro reale esistenza.

Queste correnti sotterranee del discorso, grandi o minuscole che siano, si potranno evidenziare con maggiore chiarezza quando gli elementi si riassettano in un tema più chiaro, più lineare, organizzato in un discorso. Una rimessa in ordine compatibile con la capacità del terapeuta di intuire le caotiche manifestazioni dei vissuti del paziente, già durante la seduta, ma più spesso e tipicamente nel dopo seduta, quando restano in mente elementi emotivi ancora non chiari e mentalizzati, e soprattutto nel lavoro di revisione della supervisione in cui si rivivono. Il momento della riflessione è una capacità mimetica, un arrivare alle cose diventando loro simile, un entrare e un uscire dall’unisono, per meglio vederlo.

Oggi siamo qui ad inaugurare un nuovo Anno Accademico. Questo procedere insieme, la vostra freschezza e bravura, la nostra esperienza e il rigore della responsabilità di formatori, trovano tanti punti di raccordo che si trasmettono con passione ed entusiasmo.

Succederà anche a voi nel transitare per le esperienze della professione, vi troverete nel tempo a comporre un complesso quadro dei vostri peculiari e unici aspetti di personalità. La scrittura di tesine, relazioni, saggi, pubblicazioni comporrà il vostro variegato e personale tragitto identitario e sarà un po’ il vostro autoritratto.

Come quegli antichi studenti, anche noi siamo motivati dal bisogno di confronto e guida, nella difficile e appassionante pratica della cura psicoanalitica.

Bibliografia
Anonimo inglese del Trecento, Nube della non conoscenza, Antonella Barretta (a cura di) Mimep Docet, 2019
Barthes R. (1980). La camera chiara. Nota sulla fotografia. Torino: Einaudi, 2003.
Benjamin W. (1955) L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Giulio Einaudi editore, 2000.
Beonio Brocchieri M.F., Limonta R..Volando sul mondo. Opicino de Canistris (1296 - 1352), Archinto Milano, 2016.
Bion, W. R., Apprendere dall’esperienza. Roma: Armando, 1972
De Martino E. (2016). La terra del rimorso. Einaudi Torino 2013
Eco U. (1980) Il nome della Rosa. Bompiani Milano
Freud, S. (1991), Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio. OSF.
Lappi R. (2020). Trame multiformi di geografie creative, in ARACNE rivista: https://aracne-rivista.it/rubriche/trame-multiformi-di-geografie-creative/
Giovanni Della Croce. Noche Oscura. Città Nuova 2006
Lappi R., Cesana G., Gargiulo I., Matranga D., Mommarelli M., Squizzato S., Zanardi M. La cura del dettaglio. In: Psicoterapia Psicoanalitica, Anno XXXX, N. 2/2023 102-110.
Lappi R. (2016). Forme del pensiero e disegni della mente. Esordi creativi in psicoterapia psicoanalitica. I quaderni di PsicoArt – Vol. 7, 2016.
Lingiardi V. (2023). L’ombelico del sogno. Einaudi Milano
Lorca F. G. Gioco e teoria del duende. Adelphi 2007
Michon P. (1984). Vite minuscole. Adelphi Milano
Ogden, T.H. (1997) Il terzo analitico: lavorando con fatti clinici intersoggettivi. Psicoterapia Psicoanalitica. IV, 2, 52-81.
Odgen (2016). Vite non vissute. Esperienze in psicoanalisi. Cortina Milano
Pessoa F (1982). Il libro dell’inquietudine. Editore Liberamente 2018.
Perec G. (1978). La vita. Istruzioni per l’uso. Rizzoli Milano 2005
Sylvain Piron, 2015. Dialettica del mostro. Indagine su Opicino de Canistris, Adelphi, Milano 2019.
Klein M. (1957). Invidia e gratitudine. Giunti Milano 2012
Sant’Agostino d’Ippona. Confessioni. Edizioni Crescere, 2011
Walser R. (1019). La passeggiata. Adelphi Milano 1976
Winnicott, D. (1958), Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.
Winnicott, D. (1971), La sede dell’esperienza culturale. In Gioco e realtà, Armando, Roma 1974.

Immagini
Opicino de Canistris, Palatinus Latinus, (in orizzontale e in verticale) Vat. Lat. 6435, foglio 53 v., Mappa allegorica del bacino occidentale del Mediterraneo. ©2016 Biblioteca Apostolica Vaticana.
Opicino de Canistris, Mappa (in orizzontale e in verticale) Vat. Lat. 6435 foglio 79v., ©2016 Biblioteca Apostolica Vaticana.

Rosita Lappi è membro Ordinario con Funzioni di Training della Società Italiana di Psicoterapia Psicoanalitica (SIPP). È supervisore e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica (SIPP) di Milano. Dal 2011 è Direttore responsabile e scientifico della Rivista ARACNE (www.aracne-rivista.it). Vive e lavora a Rimini.

 

[1] Aby Warburg e C.G.Jung ne hanno indagato l’opera. Si veda: Sylvain Piron, 2015. Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Roberto Limonta. Volando sul mondo. Opicino de Canistris (1296 - 1352), 2016, e anche un mio articolo: Lappi R. (2020). Trame multiformi di geografie creative, in ARACNE rivista: https://aracne-rivista.it/rubriche/trame-multiformi-di-geografie-creative/

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